Incredibile, splendente, la BOSE'

Incredibile, splendente, la BOSE'la bella dell'anno: 1950. Scoperta da Visconti, inventata da Antonioni, è lei il nuovo sogno Incredibile, splendente, la BOSE' A VEVA diciannove anni, era meravigliosa, non si poteva non innamorarsene», ricorda Michelangelo Antonioni evocando Lucia Bosè, protagonista dei suoi film Cronaca di un amore e La signora senza camelie, con la quale oltre quarant'anni fa ebbe una storia. Si conobbero, racconta, con un fischio. Una sera a Roma, in casa di Flora Volpini, la scoprì che, nascondendosi dietro una tenda, emetteva di tanto in tanto un acutissimo fischio: forse per sfogare la propria impazienza verso quell'ambiente, forse per smentire la propria timidezza di appena incoronata Miss Italia, di recente debuttante in Non c'è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis. «Non avevo mai visto una donna così bella e appassionante». E Massimo Girotti: «Aveva quella faccia incredibile, la Bosè. Bella, bella, interessante». E Tonino Guerra: «La Bosè d'una bellezza incredibile, sognata, come una dea!». C'è sempre, ogni anno, nella stagione abbandonata e felice della vacanza, una Ragazza dell'Estate: magari non la più bella in assoluto, però la più ammaliante e desiderata, la giovane donna che per fascino e stile, per una qualità simbolica di seduzione, meglio di tutte impersona l'aria del tempo. Attrice o modella, scrittrice o assassina, resterà'neUacitrtiàca come l'immagine esemplare del momento, la faccia che di colpo riporta a uri periodò" è à un mondo, a emozioni, piacere, speranze, entusiasmi, pensieri poi svaniti: nelle estati del 1950 e del 1951, durante la lavorazione e dopo l'uscita di Cronaca di un amore, era Lucia Bosè. «Quanti sganassoni» «Nel provino rivelò un'aria fosca e conturbante, giustissima», ricorda Antonioni. «E quando, insieme con Fausto Sarli, cominciammo a metterle addosso abiti di alta sartoria e gioielli veri, si trasformò in uno splendore. Era incantevole, intelligente, sveglia, allegrissima. Quanti sganassoni prese, povera Lucia, per l'ultima scena». Il film si chiudeva con il fallimento dell'amore, con l'immagine di lei addossata al portone della sua casa ricca, pesta e singhiozzante nel gran vestito da sera bianco, la breve pelliccia bianca scivolata sulle braccia, il viso rigato di lacrime, scossa da brividi di freddo e di disperazione, mentre il taxi che porta via l'amante scompare. «Ma lei era sempre contenta e non aveva abbastanza mestiere per fingersi disperata, non era un'attrice. Per ottenere il risultato che volevo dovetti usarle violenza psicologica e fisica: insulti, frasi mortificanti, umiliazioni, e schiaffi cattivi. Alla fine le saltarono i nervi, piangeva come una bambina piccola: fece benissimo la sua parte». In quegli anni Luchino Visconti girava La terra trema fra i pescatori siciliani, De Sica raccontava in Miracolo a Milano barboni poetici nel conflitto tra ricchezza e povertà, Germi dedicava agli emigranti clandestini Il cammino della speranza, De Santis filmava contadini ciociari e mondariso, il neorealismo ita- liano promuoveva protagonista il popolo: Cronaca di un amore, dopo la seconda guerra mondiale, era il primo film italiano sulla borghesia, sulla crisi di sentimenti della borghesia. La storia di una ricca signora e d'uno sbandato, Lucia Bosè e Massimo Girotti, un tempo innamorati e di nuovo legati anche dal progetto d'uccidere l'industriale marito di lei, amanti che non riuscivano a sorridere dopo essersi amati e che non riuscivano a restare insieme dopo che il loro disegno s'era realizzato da sé, per incidente: il primo antiromanzo cinematografico, un poliziesco d'amore centrato sulla prima di quelle inquiete donne moderne che il regista avrebbe poi raccontato di film in film, il primo manifestarsi della tematica di Antonioni e del suo stile, distante e insieme ardente. Cronaca di un amore vinse il premio al festival di Punta del Este, sconcertò i neorealisti, appas¬ sionò i giovani, subì il fallimento della società che lo distribuiva: e creò la fortuna, l'incanto, il gran fascino di Lucia Bosè. Bruna, alta, candida, con lisci capelli corti divisi dalla scriminatura e scuri occhi lucenti, giovanissima, bellissima, Bosè piacque immensamente per tante ragioni. Era una milanese sottile d'assoluta eleganza naturale, così diversa dalle ridondanti bellezze popolane centromeridionali d'epoca, la piccola Gina Lollobrigida coi suoi riccetti, la severa Elena Varzi, la pimpante Silvana Pampanini, l'enfatica Sophia Loren, l'ancora carnosa Silvana Mangano oppure le pettorute vallette di Totò (in Totò Tarzan, Totò Sceicco, Totò cerca moglie), Tamara Lees, Marilyn Buferd. Era una faccia del cinema, dunque dell'arte più popolare e insieme più colta, più impegnata, più legata alla storia italiana, che nel 1950 consentiva di vivere avventure impensate e autorizzava tutte le speranze di futuro. Era chic, in Cronaca di un amore, vestita benissimo, con sottovesti di raso, vestaglie preziose, gran pellicce di visone, scarpe dai tacchi altissimi, cappelli, gioielli, automobili, si muoveva in una esotica Milano fatua e lussuosa, però nella vita era figlia del popolo: una sintesi ideale, il massimo, per tutti i ragazzi della borghesia intellettuale divenuti ovviamente nel dopoguerra comunisti, socialisti o cattolici di sinistra. Bosè era nata al Cabreo, una cascina fuori Milano, sul prolungamento di via Ripamonti, dove lavorava come contadino suo padre più tardi operaio in una fabbrica di vernici, da dove la famiglia (i genitori, il fratello Giovanni) si trasferì per via dei bombardamenti della guerra. Aveva cominciato a lavorare a dodici anni, fattorina d'uno studio d'avvocato, poi aveva trovato un posto di commessa alla pasticceria Galli di via Victor Hugo: «Mica fu Visconti a inventarmi, come hanno detto», raccontò a Fofi-Faldini per la loro Avventurosa storia del cinema italiano. «Sì, era venuto in pasticceria, m'aveva guardato, m'aveva detto "Lei farà del cinema, ne sono certo". Boh, e chi è? Fu l'altro che era con lui, la mattina dopo, a dirmi: "Ma sa chi è quello che le ha detto quelle cose? Luchino Visconti". Ne sapevo come prima. "Il regista"». Ma con Visconti non era finita. Nel settembre 1947, a Stresa, Lucia Bosè venne eletta Miss Italia: tra le concorrenti sconfitte c'erano Lollobrigida, Mangano, Eleonora Rossi Drago, Gianna Maria Canale. All'epoca le Miss più belle diventavano attrici e, chissà perché vergognandosi, tendevano poi a raccontare elaborate bugie o pasticciate verità su come e perché avessero partecipato al concorso, sugli amici parenti o nemici responsabili d'aver mandato a loro insaputa fotografie e curriculum, sulla spietata ostilità moralista dei genitori. In realtà, nella maggior parte dei casi le concorrenti volevano sì farsi conoscere, speravano nel cinema, ma nella povertà del dopoguerra tiravano soprattutto ai soldi: «Centomila lire per un sorriso, un milione e più per un bel vi¬ so», era lo slogan del concorso organizzato dalla Giviemme, un'industria di cosmetici milanese di proprietà dei Visconti, la famiglia di Luchino, e in più si rimediavano vestiti, regali, a volte viaggi, quasi sempre anche liti e pettegolezzi perché le concorrenti sconfitte e le loro terribili madri o i loro terribili protettori non mancavano mai d'accusare la vincitrice di raccomandazioni, mercimoni, colpi bassi. Quasi sempre sopravvenivano delusioni: la vittoria, dopo gli iniziali premi, fotografie e precari lavori d'indossatrice, pareva non dovesse portare lontano Lucia Bosè. La parte di mondina in Riso amaro di De Santis andò a Silvana Mangano anziché a lei, ma fu lei a sostituire la Mangano in Non c'è pace tra gli ulivi, ancora diretto da Beppe De Santis che era stato tra gli sceneggiatori di Ossessione ed era amico di Visconti. Un'aura magica Luchino Visconti amava Bosè come aveva amato prima Maria Denis, come avrebbe amato poi Romy Schneider o Marisa Berenson, come amava alcune donne dalla bellezza singolare, dallo chic naturale e dal carattere lieto che gli piaceva avere intorno, ospitare in casa sua, consigliare, educare al. gusto, indirizzare nella scelta d'uno stile personale, coltivare: e l'amava più di altre perché la popolana Lucia Bosè era milanese come lui e perché somigliava un poco alle donne aristocratiche della sua famiglia, a sua madre Carla Erba, alla sua sorella minore Uberta. Per tutto il tempo, mesi, in cui lavorò alla sceneg¬ giatura d'un film tratto da Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini (ma fu poi Carlo Lizzani a girarlo, anni dopo), Visconti pensò a lei per il personaggio di Milena. Per tutto il tempo in cui Walter Chiari lavorò con il regista per Bellissima, era naturale che Lucia Bosè continuasse a frequentare la sua leggendaria casa romana di via Salaria: perché i due giovani milanesi, il ragazzo della rivista e la ragazza Miss Italia, s'erano messi insieme, insieme avrebbero interpretato filmcommedia magari intitolati E' l'amor che mi consuma, insieme avrebbero annunciato a Capodanno del 1953 il loro fidanzamento, un matrimonio che non si fece mai. Ma alla fine non fu Visconti ma Michelangelo Antonioni innamorato a inventare «la Bosè», a costruire il suo fascino, la sua aura magica così splendenti nelle estati del 1950-1951 e destinati a prolungarsi, dopo iì matrimonio di lei con Luis Dominguin, nell'amicizia con Picasso, con Dali, con Jean Cocteau: e così facili da riconoscere, vedendo Tacchi a spillo di Almodóvar, nella gran bellezza, nell'ardore elegante, nella vitalità carnale di suo figlio, Miguel Bosè. Lietta Toraabuoni Da commessa a Miss Italia, alla consacrazione cinematografica con «Cronaca di un amore» Elegante, naturale, così diversa dalle ridondanti forme popolane di Loren e Lollo Lucia Bosè brinda dopo l'elezione a Miss Italia, nel settembre 1947 a Stresa. Accanto a lei Gina Lollobrigida e Eleonora Rossi Drago A fianco, Lucia Bosè con Luis Dominguin, il grande torero che sposò a metà degli Anni 50. Sotto, con Walter Chiari: annunciarono il loro fidanzamento a Capodanno del '53, il matrimonio non si fece mai. In basso a sinistra, con Massimo Girotti in «Cronaca di un amore». Nella foto grande, un'altra celebre immagine della diva