Genesis, la musica nella grotta di plexiglas di Marinella Venegoni

Genesis, la musica nella grotta di plexiglas A Parigi il concerto d'apertura del faraonico tour europeo: il 18 a Torino l'unica data italiana Genesis, la musica nella grotta di plexiglas Per Collins e compagni un compromesso tra suono e scenografia PARIGI DAL NOSTRO INVIATO Il linguaggio visivo della musica si arricchisce di un capitolo nuovo. Nessuna sorpresa se ciò avviene con uno dei gruppi più vecchi e amati nella storia del pop: i Genesis. Spesso l'anzianità di servizio necessita di qualche piccolo trucco che aiuti a trovare le ragioni per andare avanti, e il terzetto inglese ha optato per un interessante compromesso estetico fra musica, scenografia ed immagini. Va da sé che la musica è diventata così un ingrediente come gli altri: ma un concerto da stadi, come questo che arriverà a Torino (unica data italiana) il 18 luglio prossU mo, deve pur offrire distrazioni estive. I Genesis hanno aperto ufficialmente il tour europeo l'altra sera all'Ippodromo di Vincennes con mi giorno di ritardo: lo sciopero dei camionisti che paralizza la Francia aveva bloccato il viaggio della loro indispensabile mercanzia. Ad ascoltarli, una folla di 40 mila persone che alla fine saranno tornate a casa convinte di aver speso bene i loro soldi. Un tanto a metro. Il palco dei Nostri è lungo infatti la bellezza di 75 metri con uria profondità di 30, affiancato da due torri alte 50 che contengono i diffusori audio e da due torrette sui 40 lungo le quali scorrono luci colorate. Tanti numeri sono necessari per rendere l'idea della grandiosità fisica dell'insieme: siamo nel dopo Pink Floyd, con la tecnologia computeristica dispiegata a produrre complessi giochi sincronizzati fra luci, suoni e movimenti dei tre schermi che spesso si unificano in uno solo mastodontico. Ma se il risultato è diverso rispetto alle tonnellate di concerti che abbiamo visto in questi mesi, è soprattutto per il design rivoluzionario del palco. Fra le due torri audio, infatti, non si stende alcuna copertura. La band sta in un angolino (si fa per dire), protetta da un'elegante cupola di plexiglas; oltre che dagli schermi, lo spazio vuoto è movimentato da quattro funivie che trasportano luci su cavi d'acciaio sospesi fra le due torri. Mike Rutheford, Tony Banks, Phil Collins e i loro collaboratori, il chitarrista Daryl Stuermer e l'eccellente bassista Chester Thompson, sarebbero piccoli puntini nello spazio se le loro iacee non apparissero amplificate in alto. Per i più lontani dal palco è come assistere, in piedi, ad un particolarissimo show tv. Insomma, immaginate una partita di ping pong giocata su un campo da tennis. Ma certi mirabui colpi di scena luminosi, dentro e fuori la grotta di plexiglas e tutt'intorno, colpiscono anche se la notte parigina tarda ad arrivare. Come Michael Jackson, i Genesis '92 integrano le immagini con la musica: e non si sa quanto questa resterebbe attraente in un palco spoglio e puro alla Springsteen. Marchio del gruppo restano i lunghi passaggi strumentali supportati da narrazioni liriche; lo stile è sostanzialmente immutato, con encomiabile capacità e solidità professionale dei musicisti. Ma sul palco la parte del leone è riservata a Phil Collins, che fra avventure soliste ed esperienza attorale ha maturato una grande capacità di intrattenimento: parla nella lingua del Paese che lo ospita (cosa, rara per un inglese) e canta sempre con un timbro e uno stile eccellenti; è assai più divertente, Collins, qui in compagnia dei vecchi amici che quando gira per conto proprio, anche grazie alla possibilità di attingere ad un repertorio non del tutto soporifero. Il concerto si apre con «Land Of Confusion» e prosegue con due dei brani più gradevoli dell'ultimo lp «We Can't Dance»: «No Son Of Mine» e «Driving The Last Spike», sugli operai inglesi in sciopero durante la costruzione della prima ferrovia. Ma è il successivo raedley di vecchi successi a scatenare il pubblico: solidi motivi della prima ora come «Dance On A Volcano», «Musical Box» e «Lamb Lies Down On Broadway», ancora attuale con la storia del ragazzo spaesato nella metropoli che so¬ gna un enorme agnello sdraiato sulla città. Qui, però, cominciano ad avvertirsi ì limiti delle tastiere di Tony Banks, che stendono su tutto il concerto un sottofondo sordo di organo monotono e datato. Il pop sinfonico non marcia più, e Rutheford deve lavorare sodo, con l'altro chitarrista, per rimontare. Ma Collins impazza: con Chester Thompson, dà vita allo stesso duello di batterie che già aveva marchiato il suo «Paradise Tour», e risolleva gli spiriti nei bis, con grandi successi come «Tonight» e «Invisible Touch», fra gli episodi migliori degli ultimi Genesis. Ci si chiede ora se i tre ce la faranno a ripetere l'esperimento in futuro: che cosa riusciranno ancora ad inventare? Marinella Venegoni Il palcoscenico con la cupola di plexiglas e il grande schermo dove viene proiettato il video

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