FLAIANO IL MARZIANO di Ennio Flaiano

FLAIANO IL MARZIANO FLAIANO IL MARZIANO Giornali, arguzie, romanzi E' un libro minore V di Ennio Flaiano / che dice tutto sulle sue concezioni del nostro viaggio su questa terra. E' intitolato Un giorno a Bombay (Rizzoli, 19130), è postumo come quasi tutti i libri di Flaiano, e comincia così: «In aereo: è la notte del 18 settembre e sbadiglio. Sto in questa specie di gran corridoio pieno di poltrone sul deserto d'Arabia, in un cielo senza luna. Guardando a Occidente vedo il pianeta Giove, è l'unico punto certo, verso est all'orizzonte brillano dei fuochi. Sto mangiando, senza grande appetito, del canard à l'orange imbarcato poco fa a Beirut...». Poche righe che suggeriscono già che tipo di viaggiatore sia stato Ennio Flaiano. Nella sua bella prosa, di un'eleganza classica, sbadiglio e disappetenza testimoniano che nessuna retorica di viaggio può piegare Ennio Flaiano al conformismo. Del resto, basta procedere di poche altre righe ed Ennio Flaiano ci specifica che non è il viaggio in India che lo disamora, ma qualsiasi altro viaggio. «Mi volto a guardare nella poltrona accanto il mio compagno di viaggio, P., che sta leggendo un libro sulla Cina. In pochi giorni ne ha letti tre. Anch'egli sbadiglia. "Comincio a credere mi dice, - "che c'è qualcosa di più noioso dei libri sulla Cina, ed è la Cina stessa". Beviamo il caffè in silenzio. La immobilità della corsa rende un po' ridicolo il fatto che siamo seduti, nei suoi spostamenti sulla Terra l'uomo ha raggiunto una facilità tutto sommato indecente...». Ed Ennio Flaiano butta giù un'ipotesi di lavoro, o magari di non lavoro, abbastanza seducente: «Forse la noia dell'uomo moderno è soltanto la sua incapacità di continuare a meravigliarsi, una sua opaca abitudine alle cose straordinarie: gli sembra che tutto gli sia dovuto, o che non abbia valore. Queste tre ore che ci dividono da Bombay ci sembrano già troppe, vittime appunto di una noia razionale che anticipa le sensazioni e rende inutili le attese. Vorremmo già essere a Bombay, o non esserci affatto, perché forse l'unico luogo che ancora riesce a emozionarci è la nostra stanza, la cuccia, dove i problemi ridiventano insolvibili...». Era lui stesso il primo a considerarsi un Marziano, quando l'ho conosciuto nell'immediato dopoguerra. Il secondo inverno dopo la fine dei guai passati per non morire in guerra, ma anche il secondo inverno dopo l'inizio dei guai per sopravvivere in pace. Faceva un freddo cane in quella stanzetta al numero 11 di viale Biancamaria in cui stavamo pigiati, Ennio Flaiano, Achille Campanile, Giuseppe Marotta, Riccardo Manzi e indegnamente io come avventizio. La redazione di Omnibus, ma non del celebre settimanale diretto da Leo Longanesi uscito tra il 1937 e il 1939 e soppresso dal fascismo, pare, per un articolo di Alberto Savinio sulla cacarella di Leopardi. Il nostro Omnibus era un remake post-fascista diretto dal commediografo Salvato Cappelli, improvvisatosi editore, e con successo, a Roma appena liberata con un settimanale dal fatidico nome Crimen, che mirava a risarcire gli italiani dell'avarizia del fascismo in fatto di cronaca nera, e che, per la verità, si era mostrato propenso a un risarcimento di truce sovrabbondanza. Salvato Cappelli aveva avuto l'idea di riprendere la testata longanesiana, trasferendosi a Milano, dove nell'immediato dopoguerra arrivavano tutti a cercar lavoro. C'erano moltissime belle firme a disposizione tra disoccupati per così dire liberi e disoccupati per così dire coatti, ovvero discriminati per ragioni politiche. Fui fortunato a capitar lì in mezzo ai miei esordi, in un ruolo tra il fattorino e il mozzo, incapace di far qualsiasi cosa, ma più che capace di libidine, ovvero di ammirare quei maestri. Marotta tto» ovo tta, anzi era il più sospettoso, sospettava di tutto e tutti, della gente come del proprio corpo che immaginava affetto da ogni malattia. Campanile spesso e volentieri sorrideva da solo in silenzio, togliendosi e rimettendosi il monocolo. Manzi, il grande disegnatore satirico, era il più caldo, elegante, ogni tanto cantava con enfasi partenopea. Flaiano era il più astratto, quasi mai pareva esser veramente tra noi, anche se si viveva gomito a gomito. Omnibus andava così e così. Cappelli aveva contato su un maggior ritardo nella ripresa dei grandi editori tradizionali per conquistare la piazza di Milano. Invece, Rizzoli aveva tirato subito fuori l'Oggi e Mazzocchi l'Europeo. Difficile reggere la concorrenza, non reggerla, farla. Dopotutto, Omnibus campava su un tanto, anzi un poco dì certi affari tra la Snia Viscosa e la Jugoslavia, oggetto legname, mediati da un pezzo grosso comunista, credo Eugenio Reale e la sua banda. Una minima percentuale delle percentuali era destinata a finanziare un periodico di sinistra. Allora si chiamavano percentuali, non tangenti. Eravamo tutti più ingenui. Cappelli, comunque, continuava a sognare nuovi giornali. Un giorno che, a parte Cappelli, (eravamo solo noi due nella guarnigione di viale Biancamaria) il Marziano Flaiano se ne uscì dall'astrazione con: «E' terribile a trentasei anni vivere a Milano. E se si pensasse anche noi a un giornale da proporgli?», mi bisbigliò, mentre la voce di Cappelli ripeteva al telefono i suoi proclami espansionistici nell'altra stanza, elargendoli a chissà chi. «Io, l'avrei una proposta. Cambia il costume, bisogna stare al passo. Si potrebbe fare una rivista per diversi. Che ne diresti di una testata come II Traforo? Il Traforo illustrato! Troppo volgare? Ma no, vorrei mettere in copertina uno di quei giochi di costruzioni in legno, ci hai mai giocato da bambino? No, se ti pare troppo volgare, non ne facciamo nulla. E di un titolo come la Giarrettiera, cosa ne diresti? Noi, in copertina ci mettiamo un bel polpaccio maschile con la sua bella giarrettiera. Siamo d'accordo per La Giarrettiera?...». Attaccò a disegnare la copertina. L'inverno del 1946 era molto duro. Ogni tanto andava via la luce, ma si parlava di un inciden¬ te non di un black-out. Eravamo molto meno acculturati di quanto si sia oggi. La luce se ne andò naturalmente anche quel pomeriggio. Chiusi gli occhi nel buio, quasi dormivo, quando Ennio Flaiano ricominciò a bisbigliare: «Ieri sera ho incontrato Longanesi. Mi ha fatto una proposta. Mi ha detto se gli scrivo un romanzo per i primi di marzo. Sono scoppiato a ridere. Ma lui ha detto che non scherzava. Sembrava, anzi, indignato per la mia risata. Per educazione, tanto per farmi scusare, ho provato a esporgli un'idea di romanzo, una storia fantastica. Ma così fantastica da non poterla immaginare svolgersi in Italia. In Africa magari, in Africa orientale. E Longanesi mi ha detto che, se cominciavo subito, mi avrebbe dato un anticipo. Se mi dà un anticipo, è un guaio. Mi tocca mettermi a scriverlo davvero. E se poi la mia idea di romanzo non so metterla in pratica? E se deludo Longanesi? Non sarebbe stato meglio se non ne avessi neppure parlato, della mia in qudi fre«Temordin idea? Un romanzo, perché mai scrivere un romanzo?...». Scrivere un romanzo, era un'idea guida per le chiacchiere culturali italiane sotto il fascismo. C'erano un sacco di riviste e rivistine letterarie che discutevano l'argomento e tutti i fogli giovanili, quelli del Guf, da Pattuglia di Forlì al Bo di Padova, da Libro e Moschetto di Milano a Rivoluzione di Firenze eccetera, lo riprendevano con monotonia e fervore, preferendo dissertare sulla questione del romanzo piuttosto che su questioni politi» che o morali. Gli italiani erano fatti o non fatti per il romanzo? Certo, aveva scritto un romanzo, un grandissimo romanzo, Alessandro Manzoni con I promessi sposi, ma non c'era molto altro da vantare prima e poi. Le confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo e cos'altro mai? Sì, certo, aveva scritto un romanzo anche un giovanotto che di nome e cognome faceva Alberto Moravia, Gli indifferenti, nel 1929, ma non era il caso di parlarne troppo sui giornali, poiché il suo vero cognome era Pincherle, era ebreo, insomma, e non apprezzato in quanto tale dalle superiori autorità. Anche solo citarlo in un pezzo che si occupava d'altro, lo esperimentai in corpore vili, provocava rimbrotti e allarmi. Una rondine, per di più sospetta, non poteva, comunque, far primavera. No, no, gli italiani erano fatti per il racconto (vedi Boccaccio), ma non per il romanzo. Chissà quando sarebbe stato scritto il romanzo fascista. Nell'immediato dopoguerra, Ennio Flaiano, scrivendo in qualche mese di freddo milanese Tempo d'uccidere per l'amico e impresario Leo Longanesi che gli aveva dato un anticipo, risolse il problema. Fascista no, ma si poteva benissimo scrivere un romanzo italiano non assoggettato a una retorica di regime, anzi imperniato proprio sulla dissoluzione delle idee ufficiali di regime, la cosiddetta epopea dell'Impero, la conquista del quale nel 1936 aveva provocato il consenso al fascismo di tanti che lo avevano prima avversato. In Tempo d'uccìdere, subito pubblicato dall'editore Longanesi (il geniale inventore della formula a doppio taglio: «Il Duce ha sempre ragione», usabile prò e contro) riportava il romanzo dall'epica inesistente alla coscienza e incoscienza dell'mdividuo. Tempo d'ucci- dere, nel 1947' vinse il primo (e non solo cronologicamente) premio Strega. E' il più bel romanzo italiano del mezzosecolo. Ma di quale mezzosecolo? Quello che finì o quello che cominciò nel 1950? Conforme. Ennio Flaiano (Pescara, 1910 Roma, 1972) se ne era già tornato a Roma dove si sarebbe affermato soprattutto come suggeritore e garante dei capolavori cinematografici altrui. Milano gli era servita a scrivere un romanzo, il suo unico romanzo. Mi stupii per la disinvoltura con cui il protagonista e vittima di Tempo d'uccidere usava la rivoltella, ne scrissi due o tre righe appunto su Omnibus, che ormai anche Salvato Cappelli cominciava a pensare una causa persa, e lui mi scrisse da Roma: «Mi sorprende la tua sorpresa per la rivoltella. Non sai dunque che la rivoltella è semplicemente la proiezione del dito indice? Quante volte ti sarà capitato di uccidere una persona soltanto indicandola col dito! Appunto la buona educazione vuole che non si debba mai indicare qualcuno con il dito. E' chiaro che in un romanzo, per non mettere pulci nell'orecchio al lettore, si usino le rivoltelle. Salutami Salvato e gli amici». Salvato Cappelli, allora, pensava soprattutto a Bis, il primo grande (anche di formato) settimanale letterario di cinema diretto da Marotta con crisi continue di diffidenze e sospetti per tutto e tutti. Prima o poi i collaboratori di Omnibus avrebbero ricevuto il fatidico telegramma: «Morto Omnibus. Salvato Cappelli. Segue lettera». Salvato Cappelli, come firma e destino. Oreste del Buono // più «astratto» nella redazione del nuovo «Omnibus», con Marotta, Achille Campanile, Manzi in qualche mese di freddo milanese scrisse «Tempo di uccidere», ordinatogli da Longanesi Flaiano (autoritratto)