Questo Kafka mi fa horror di Alessandra Levantesi

Questo Kafka mi fa horror A Viareggio il film girato da Soderbergh, protagonista Jeremy Irons Questo Kafka mi fa horror Povero Travet in guerra con l'occulto VIAREGGIO. «In ogni città degli uomini esiste una Kafka City», ammoniva Elio Vittorini presentando su «Il Politecnico» una serie di foto metropolitane ispirate a minacciosi contrasti di luce espressionisti. Ma certo la Kafka City per eccellenza resta Praga; e se i cineasti non se la inventano in studio, come ha fatto Woody Alien per «Ombre e nebbia», ci vanno volentieri a girare, attirati dai labiranti psicoanalitici di Staro Mesto e dai prezzi ancora concorrenziali rispetto all'area del dollaro. Nella capitale dell'ahimè agonizzante Cecoslovacchia abbiamo visto ambientare film recenti come «Utz», «Praga» di Peter Sellar e «Prova di memoria» di Marcello Aliprandi, in programma fuori concorso qui al «Noir in Festival». Dov'è invece apparso in concorso un ulteriore film praghese che s'intitola addirittura «Kafka» ed era molto atteso come opera seconda di quel giovanotto americano, Steven Soderbergh, vincitore a sorpresa della Palma d'oro a Cannes nell'89 con «Sesso, bugie & videotape». Non inganni l'insegna suggestiva: al contrario dell'omonimo libro di Pietro Citati, «Kafka» non è una biografia dello scrittore tanto inedito e sfortunato nella sua breve vita (morì di tisi a 41 anni) quanto diffuso e mitizzato nella società dei consumi. Il film si pone piuttosto come una variazione sulle miserie di un novello- signor Travet, per l'appunto chiamato Kafka (sarà lui, non sarà lui?), trascinato in una guerra involontaria con il potere occulto che dal castello dominante la città tesse una ragnatela di orrori e sangue. Il curioso copione di Lem Dobbs esisteva da anni e Soderbergh non ha fatto altro che metterlo in scena, tagliarlo e riadattarselo in modo da suscitare il risentimento dell'autore. Così è caduta tutta una parte sui legami famigliari del protagonista, oggetto della famosa «Lettera al padre» che infatti arriva nel finale inaspettata, e si sono allargati i rapporti fra l'eroe e la bella terrorista, sullo schermo Jeremy Irons e Theresa Russell. Il tutto in una dimensione fra il thrilling alla Hitchcock e l'horror, con quanto di «kafkiano» il cinema ha prodotto nella sua lunga storia: dai film di Murnau (il personaggio del supercattivo si chiama dottor Murnau) a quelli di Fritz Lang. E' come se l'assurdo universo dell'autore di «Il processo» fosse stato preso a pretesto per un gioco da tavola con le caselle dell'ufficio, della casa, del caffè, del cimitero ebraico, del nido dei bombaroli, del ponte sulla Moldava, del castello nel quale il protagonista penetra in sottofinale mentre il suggestivo bianco e nero del film esplode nel colore. Oppure, altro paragone, è come se da Kafka (vita e opera) fosse stato tratto uno di quei filmetti intellettuali alla «Dylan Dog» che piacciono ai tifosi di «Noir in Festival». Certo la fattura è accurata: interpreti di classe come Sir Alee Guinness, Ian Holm, Joel Grey, Armin Mueller-Stahl sono presenti con gustosi «cammei»; e sono tante le strizzate d'occhio agli intenditori, la più riuscita delle quali è il tormentone degli assistenti strampalati e minacciosi tratti da «Il castello». Ma Jeremy Irons si trova alle prese con un personaggio fantomatico che non vive e non interessa né in quanto Kafka uomo e scrittore, né in quanto protagonista di un mystery. E l'intreccio è così poco appassionante che anche a prenderlo, nei limiti di un gioco intellettual-popolare, come un puro divertimento, il film non risulta neppure troppo divertente. In ogni caso l'accoglienza viareggina è stata cordiale e se ne riparlerà quando tra qualche mese lo vedremo sugli schermi normali. Arrivederci a Kafka City. Alessandra Levantesi

Luoghi citati: Cannes, Cecoslovacchia, Praga, Viareggio