La maledizione del collezionista

La maledizione del collezionista La saga dei Mellon, mecenati americani, miliardari sfortunati e tristi La maledizione del collezionista Conquistò i quadri che rovinarono Carlo I IN un vecchio saggio intitolato Addio, cari quadri, Mario Praz rifletteva sulla «sete d'infinito» che spinge i collezionisti verso il possesso delle grandi opere d'arte. E citava il «colpo grosso» di Carlo I d'Inghilterra, che nel 1627 e nel 1629 riuscì a comprare, attraverso il suo agente Daniel Nys, l'inestimabile pinacoteca di Vincenzo Gonzaga, in barba alle proteste dei mantovani. Ma se ci si documenta su questa avventurosa vicenda, si scopre che il «colpo» non portò fortuna a chi lo realizzò. Daniel Nys finì la vita in rovina, la casa aperta ai creditori. La metà dei quadri raggiunsero l'Inghilterra a bordo di una nave the quasi naufragò in una tempesta, e molti ne uscirono danneggiati. Carlo I pagò così caro 1 acquisto della più bella collezione del mondo, che si ritrovò senza fondi per armare il duca di Buckingham, impegnato a dar manforte agli Ugonotti a La Rochelle. Aspramente criticato dal Parlamento, fu sempre più isolato, finché nel 1649 perse il regno e la testa. E Cromwell, appena preso il potere, disperse all'asta quella collezione che aveva procurato tanti guai. Tre secoli dopo, nel 1931, il miliardario americano Andrew Mellon acquista 33 capolavori dall'Ermitage di Leningrado, pagando al governo sovietico 19 milioni di dollari, cioè più di quanto Carlo I avesse pagato al Duca di Mantova per l'intera collezione. Molti dei quadri di Meiion sono gii stessi Nel che dal Duca di Man- acqula coCatetova erano passati a Carlo I, e con fortunose vicende erano finiti nelle mani di Caterina II. Aveva davvero ragione Praz, quando scriveva che «nessun destino è così epico e romanzesco come quello delle opere d'arte, poiché di solito la loro storia è intrecciata con quella dei grandi della Terra, siano teste coronate o si chiamino soltanto Mr. Mellon». Da Carlo I a Mr. Mellon: la grande illusione che si possa legare per l'eternità il proprio nome ai capolavori dell'arte non si arrende alle smentite della Storia. E' come la trama di un grande romanzo un po' insensato a cui ora si aggiunge un nuovo capitolo, con la pubblicazione di Reflections in a Silver spoon (Riflessi in un cucchiaio d'argento, edito da Morrow, Stati Uniti), il libro di memorie in cui il figlio di Andrew Mellon, Paul, racconta il seguito della storia. E col garbo e la malinconia di un gentiluomo di 84 anni disegna il ritratto di quel padre troppo ricco e detestato, del suo matrimonio infelice, della malattia del collezionismo che ha colpito entrambi i figli e di quella sete d'infinito che spinse un uomo freddo come Andrew Mellon a struggersi per Raffaello e per Tiziano. Un padre durissimo, che si mostrò sbalordito quando, avviato il progetto di donare la sua collezione a Washington e erigere la celebre National Gallery of Art, sentì i figli Paul e Ailsa chiedere il permesso di trattenere per sé almeno un'opera della sua collezione, un ricordo della loro infanzia. E glielo negò. «Il museo per lui non è che un altro investimento, un altro Grande Interesse dei Mellon... - si sfogò Paul in una lettera - un altro pezzo della costruzione che tiene in piedi il suo gigantesco, infaticabile, misterioso ego...». A quell'epoca Paul Mellon aveva 29 anni, e stava per dire a suo padre, con educata fermezza, che non intendeva condurre come lui una vita di affari. I rapporti tra i due erano sempre stati difficili, anche se nel 1929 il grande banchiere di Pittsburgh aveva intestato al figlio una colossale fortuna. Quello chane ha fatto Paul è strabiliarti ^dollari d'arte;i fóhdàiz: Che un 600 milioni di iasioni in,'opere 'crotri di ricérca, o come lui parli adesso attravèrso un libro è un fatto sorprendente oltreché curioso. Sorprendente perché, dopo i due grandi scandali che colpirono in passato la sua famiglia, Paul Mellon ha sempre cercato di evitare la notorietà. Curioso perché, proprio in conseguenza di quegli scandali, ha frequentato la psicanalisi così assiduamente da divenire amico di Jung e di Anna Freud. Ed è stata la sua psicanalista a consigliargli di scrivere quest'autobiografia (chissà se Mellon ha letto Svevo). Del primo scandalo si parlò a non finire negli Anni 10, quando il matrimonio del padre, scapolo ombroso di 43 anni, con una viziatissima e vivace adolescente inglese, sfociò in un clamoroso divorzio per adulterio. «Mia madre odiava mio padre per i suoi soldi scrive Mellon -. Non dimenticherò mai il disprezzo con cui diceva che era un "multimiliardario". Cominciai a credere a poco a poco che un miliardario fosse una sorta di verme». Del secondo scandalo si riparla invece ora, proprio riguardo alla decisione di Andrew Mellon di regalare a Washington il più importante museo degli Stati Uniti (con il Metropolitan di New York). Andrew Mellon, banchiere, ex Segretario del Tesoro sotto tre presidenti, e ambasciatore a Londra all'inizio degli Anni 30, era stato rimosso nel '33 dal pj^dénte Roosevelt é pubblicamente accusato di una colossale evasione fiscale. Ci volle molto tempo per provare che l'accusa era infondata ed era probabilmente una vendetta (Mellon era stato, durante la Depressione, l'uomo più odiato degli Stati Uniti dopo il presidente Hoover). «Ma una cosa voglio smentire qui, e subito scrive il figlio -: che mio padre abbia fatto una specie di patto con l'amministrazione Roosevelt, per cui se avessero smesso di perseguitarlo, avrebbe costruito un grande museo e dato la sua collezione allo Stato». Il vecchio banchiere, infatti, accarezzava il sogno di «legare la propria vita a qualcosa di eterno» già da molti anni, e nel 1931 scriveva a Paul dell'enorme impegno che si era preso acquistando tutti quei Rubens, Tiziano, Raffaello e Van Dick messi in vendita da Stalin, per finanziare il piano quinquennale, attraverso la Knoedler Gallery di New York. Che smacco per Lord Duveen, che si vantava di essere il più grande mercante d'arte di quei tempi, appostato in un appartamento a Washington sotto quello di Mellon, ma escluso dall'affare. «Dicevano che Duveen avesse un grande carisma - scrive Paul perdendo per un istante la sua flemma -, ma io ne avevo disgusto e l'ho sempre ritenuto ava isti: mo un ceffo presuntuoso e saccente, pronto a approfittarsi di ogni occasione per lustrare la propria immagine e fare i propri interessi». Quanto agli interessi di Paul Mellon, sembrerebbero quelli di un gentiluomo d'altri tempi: le scuderie dei cavalli da corsa, la caccia alla volpe, il mecenatismo. Dalla sua amicizia con Jung ricava l'idea di tradurne in America le opere complete, a cura della Fondazione Bollingen, da lui istituita apposta. Finanzia anche un premio di poesia, la cui giuria (Auden, Lowell, Eliot e altri) premia nel '48 Ezra Pound, con grande scandalo sulla stampa e accuse di «fascismo». Ma Paul Mellon non se ne cura affatto, anche perché quell'anno, racconta, comincia a bruciare dentro di lui la fiamma del collezionismo. E la descrizione delle sue passeggiate per la Cinquantasettesima Strada di New York, nelle cui gallerie cerca quadri impressionisti con la moglie Bunny, è una delle parti più felici del libro. Forse semplicemente perché erano anni diversi, anni in cui solo i mercanti frequentavano le aste, i collezionisti erano gente quieta, e il mercato non conosceva ancora l'investimento nell'arte come mezzo per sconfiggere l'inflazione, che ha portato agli eccessi degli Anni 80. Ma anche lui tocca un record, nel 1958, quando il suo agente acquista per oltre 600 mila dollari a un'asta da Sotheby's lo spettacolare Ragazzo colpanciotto rosso di Cézanne, che va a aggiungersi alla Lezione di piano di Degas, ai Campi di papaveri di Monet, al Te Pape Nave di Gauguin, ai Campi verdi di grano di Van Gogh. «Che possibilità avrebbe un uomo oggi - si chiede Mellon - di mettere insieme tanti tesori?». Eppure lui li accumula, e poi li elargisce. Molti dei suoi impressionisti sono già alla National Gallery di Washington. L'Università di Yale si è presa i suoi Reynolds, i suoi Constatile e Stubbs, e il resto della sua grande collezione di inglesi. Lo Stato della Virginia gli altri tesori. Il suo compito è svolto, il suo lavoro concluso. E qui Paul Mellon si congeda, pago di aver restituito tanto della fortuna ereditata, e grato alla psicanalisi e al mecenatismo grazie ai quali aveva superato «i devastanti effetti della ricchezza» che in gioventù ne avevano fatto un maniaco depressivo. Oggi è un elegante vecchio signore pacificato con la vita, e persino col tiepido affetto per i genitori. Eppure, è strano e ovvio insieme, la «sete d'infinito» del collezionista lascia il suo marchio anche sulle sue donazioni: nessun museo potrà mai vendere, o prestare a nessuna condizione, le opere da lui elargite. Chissà se Paul Mellon ha mai letto la storia dei quadri del Duca di Mantova, di Carlo I, e di Caterina di Russia. Chissà se lui, e suo padre, si sono mai accorti che anche loro avevano creduto di legarli a sé per l'eternità. Livia Manera Nel 31 ti padreAndrew x* acquisto da Stalin la collezione della grande^ Caterina iglio Paul comprava tutti gli impressionisti: fra accuse di fascismo scandali e divorzi miglia, Paul Mellon ha sempre cercato di evitare la notorietà. Curioso perché, proprio in conseguenza di quegli scandali, ha frequentato la psicanalisi così assiduamente da divenire amico di Jung e di Anna Freud. Ed è stata la sua psicanalista a consigliargli di scrivere quest'autobiografia (chissà se Mellon ha letto Svevo). Del primo scandalo si parlò a non finire negli Anni 10, quando il matrimonio del padre, scapolo ombroso di 43 anni, con una viziatissima e vivace 31 ti padreAndrew x* uisto da Stalin ollezione della grande^ erina tamento a Washington sotto quello di Mellon, ma escluso dall'affare. «Dicevano che Duveen avesse un grande carisma - scrive Paul perdendo per un istante la sua flemma -, ma io ne avevo disgusto e l'ho sempre ritenuto iglio Paul compratutti gli impressionisfra accuse di fascismscandali e divorzi Due capolavori della collezione di Paul Mellon, donati a istituzioni americane: il «castello di Warwick» del Canaletto e sopra un Van Gogh