Io confessore della Baader Meinhof

Io confessore Baader della Meinhof Parla il pastore Albertz. A lui si rivolsero i terroristi della Raf : «Cercavano uno sfogo, di me si fidavano» Io confessore Baader della Meinhof BREMA DAL NOSTRO INVIATO La prima volta che incontrò i terroristi della Raf fu per caso: Heinrich Albertz, allora, era parroco a Berlino e non immaginava che sarebbe diventato il confidente, «l'amico», la «guida spirituale» di uomini e donne della Rote Armee Fraktion, da Ulrike Meinhof a Gabi Tiedemann, da Rolf Fohle a Peter Jùrgen Boock, a tanti altri. Personaggi che hanno segnato di violenza la storia tedesca degli ultimi vent'anni e, nei parlatori spogli delle prigioni di tutta la Germania, hanno confrontato «la loro fede» con la sua. Quando, nell'autunno del '75, gli arrivò la lettera del «gruppo di fuoco» che aveva rapito Peter Lorenz, presidente del Parlamento di Berlino, il pastore evangelico 7flbértz7'àHòra sessantenne, non pensò ai rischi: accettò di «diventare ostaggio», salì con loro sull'aereo messo a disposizione dei sequestratori in cambio della libertà di Lorenz, li accompagnò nel Sud Yemen, poligono d'addestramento prediletto da terroristi di varia provenienza. «Volevano assicurarsi una garanzia d'incolumità», ricorda adesso. «Meravigliosa lettera» Albertz aveva un passato politico vivace, era stato ministro dell'Interno a Berlino quando fu costruito il Muro e sindaco della città nel '66, prima di dedicarsi soltanto all'attività di Chiesa. Per lui fu l'incontro con un'umanità malata di utopismo e di violenza, una svolta che avrebbe segnato la sua vita e che ancora oggi l'accompagna. Quelgiorno del 1975 la Raf gli aveva scrìtto una «meravigliosa lettera». Diceva: «Lei è una persona politicamente impossibile ma sappiamo che se dice sì è sì, se dice no è no. Di lei ci fidiamo». A distanza di vent'anni quasi, il pastore Albertz non capisce ancora che cosa spinse davvero fino a lui quei «tre o quattro uomini e due donne dei quali non ricordo nemmeno tutti i nomi». Heinrich Albertz, adesso, ha 77 anni, è fragile, pallido e smagrito, un po' curvo. Vive in un piccolo appartamento al secondo piano di una casa di riposo a Brema, perché «la salute si è indebolita»: a parlare si stanca presto, ma forse è anche la difficoltà di quei ricordi ai quali non può sempre dare «piena libertà» per non tradire la parola data, lascia intendere alla fine. Nella stanza che serve da salotto e camera da letto, su un tavolino di piastrelle rosa con i segni zodiacali, c'è un mazzo di crisantemi bianchi, sul davanzale un albero d'arancio in miniatura, dappertutto le fotografie dei nipotini. In un angolo, un'istantanea insieme con Willy Brandt quand'era Cancelliere. Adesso quel perìodo per lui si è chiuso e incontra, ogni tanto, soltanto Gabi Tiedemann, «ragazzina ai tempi della fuga a Aden», «segnata profondamente dai quindici anni di prigione» dopo l'attentato all Opec di Vienna, impiegata oggi in una società cinematografica a Colonia. Il «parroco della Raf» sembra stupito che si voglia «tornare indietro» a chiedergli com'erano, gli uomini e le donne della Rote Armee Fraktion che insanguinarono il Paese. Lui li avvicinava «per ascoltarli come uomo di Dio e come persona» e «dargli la possibilità di parlare a quattr'occhi con qualcuno»; riuscì a creare «solidarietà umana, fiducia, una certa simpatia». La violenza come necessità Non sentì mai nessuno confessare che la lotta armata era un errore, mai nessuno gli parlò di pentimento? Per tutti gli anni in cui incontrò in carcere Ulrike Meinhof e gli altri suoi compagni, l'unica che «a un certo punto» si mostrò pentita fu Gabi Tiedemann: quando aveva già scontato dodici anni d'isolamento in Svizzera e tre l'aspettavano in Germania. «Tutti gli altri rimasero sempre convinti», anche se qualcuno gli parlò «chiaramente» dell'esperienza che si prova a dar la morte. Con l'eccezione di Gabi Tiedemann, «vedevano tutti la violenza e la morte come una necessità politica, senza autocritica, e la cosa più terribile è stata proprio questa, sentirli dire che le loro vittime erano nemici e che restavano nemici». Nessuno ha mai cercato la sua comprensione su questo punto decisivo, nessuno ha mai provato a forzare la propria dipendenza dalle «necessità del gruppo e della lotta»? Adesso che gli è possibile soltanto ricordare, Heinrich Albertz confessa la pena che da allora l'ha accompagnato sempre, fino alla casa di riposo a Brema: «Non riuscivano a separare la morte di una persona dal suo significato politico, non riuscivano a togliere la violenza dalla causa. Se mi hanno mai chiesto di capirli? In me cercavano soprattutto la possibilità di sfogarsi, per loro ero l'occasione di parlare con qualcuno, e in questo sono certamente servito a tutti». Soprattutto a Ulrike Meinhof, il mito della «generazione combattente» dopo la morte misteriosa in carcere, una fine che Heinrich Albertz non sa spiegare pur escludendo l'omicidio: «Ulrike era l'esempio più intelligente e coerente delle persone che agivano nella legalità in opposizione a quello che si chiamava establishment, e che per delusione di fronte alla mancanza di cambiamento sono scivolate nella violenza. Era una donna estremamente simpatica, amichevole». Con lei, grazie anche a una lontana parentela (la madre del pastore era una Meinhof, la famiglia di Ulrike ha dato molti uomini alla Chiesa «fin dalla Riforma»), il dialogo fu relativamente facile, ma non superò mai «la soglia della verità». La «comprensione» si arrestava «all'emozione della parola», il dialogo liberatorio dopo silenzi lunghissimi e forzati, dopo una solitudine che alle volte bastava poco per spezzare: «Questioni pratiche sulla vita di prigione», che fare per avere cibo migliore, come ottenere «un normale alleviamento della pena come per tutti gli altri detenuti». L'impasse era sulla «formula guida» di quella prima generazione di terroristi: «Ulrike mi diceva: legalmente non possiamo ottenere nulla e per questo abbiamo scelto la violenza, ma le autorità reagiranno con la violenza alla violenza e la Repubblica Federale si trasformerà in uno Stato di polizia. La popolazione allora si ribellerà e nascerà uno Stato democratico. Io rispondevo che era un errore di calcolo totale, perché la gente era a favore di quei mezzi straordinari. Glielo ripetevo sempre». Fino alla fine ma senza mai «riuscire a convincerla che era un terribile sbaglio». Fino a sentirsi «impotente» per non essere riuscito a cambiar nulla e nessuno se non «la piccola Gabi», la più fragile al tempo del rapimento Lorenz. Questa tensione, questa volontà di «far da tramite verso la normalità» per uomini e donne che avevano reciso ogni legame con la società e la storia, non riuscì sempre e con tutti. «Una delusione dolorosa» Andreas Baader, per esempio, lo respinse, forse perché «era un po' lo spirito maligno del gruppo» sul quale «aveva un'influenza enorme». Non lo chiamò mai, non volle parlargli mai. Se il pastore si presentava per incontrarlo, rifiutava, nonostante l'esempio di chi gli era molto vicino, come Ulrike. Lui più di altri, forse, «aveva perso il contatto con la realtà», dice adesso Albertz. Il «tratto più significativo» nella sua storia è proprio questo: «Quando Baader parlava con i giudici ci sarebbe voluto un interprete, qualcuno che traducesse. E' capitato ad altri, capitava a tutti forse. Per questo non si sono mai capiti». Altri lo hanno disilluso nonostante il «desiderio di parola»: Peter Jùrgen Boock, oggi, è motivo di «frustrazione e d amarezza», «una delusione dolorosa». «Aveva giurato di essere innocente, di non aver preso parte a attentati e all'improvviso il mese scorso ha confessato di aver partecipato all'omicidio di Hans Martin Schleyer. Nemmeno a me che andavo da lui come pastore confessò mai niente». E' giusto dunque pensare alla riconciliazione, al perdono per questa piccola costellazione di uomini capaci di «mentire persino alla parola e alla sua promessa» per «affermare la propria consistenza», come pure si è suggerito di recente? Albertz è sospeso: «Il ministro Kinkel ha capito che non si poteva continuare, che bisognava cambiare, perché la vecchia strategia non ha portato a niente: il nostro gigantesco apparato investigativo non è stato capace di far luce sugli ultimi omicidi, l'ultima generazione della Raf è totalmente sconosciuta. Ma riconciliazione è una parola che punta troppo in alto, e bisogna guardare le cose in modo pragmatico». Come il pentimento: «E' una parola eccessiva e dopo quel che ho visto in questi anni non mi aspetto "pentimenti". Basterebbe una visione sobria, la ragione. Ma non dimentichiamoci neppure l'altra faccia di un difficile problema, un paradosso: lo Stato è forte soltanto quando riesce a sopportarlo, il perdono». Emanuele Novazio fessore ader inhof A fianco, Andreas Baader. «Quando parlava con i giudici ci sarebbe voluto un interprete», dice Heinrich Albertz. Sopra, il pastora, . evangelico in una foto del 75 Ulrike Meinhof. Di lei li pastore Albertz ricorda: «Era l'esempio più intelligente e coerente delle persone che agivano nella legalità contro l'establishment e che per delusione di ■ «' fronte alla mancanza di cambiamenti sono scivolate nella violenza» A fianco, Andreas Baader. «Quando parlava con i giudici ci sarebbe voluto un interprete», dice Heinrich Albertz. Sopra, il pastora, . evangelico in una foto del 75

Luoghi citati: Aden, Berlino, Germania, Sud Yemen, Svizzera, Vienna