Lacrime di gioia nella notte del Labour
Lacrime di gioia nella notte del Labour r DIARIO DI GERUSALEMME Lacrime di gioia nella notte del Labour TEL AVIV N ruggito gioioso, corale e possente scuote le fondamenta del vecchio Dan Hotel. Sono le 10 e quattro minuti della sera (ora locale) del giorno 23 di giugno del 1992: Sivan 22-5752, secondo il calendario ebraico; la tv diffonde le prime proiezioni e il popolo laborìsta ammucchiato nella ball-room, giù nel sottosuolo, urla la sua felicità: 45 seggi ai laboristi, 34 al Likud. Il 17 di maggio del 1977, ad ore 23, quando la tv annunciò il trionfo di Begin al numero 110 della Hayarkon Street, la sede del partito laborìsta si svuotò come per un improvviso coprifuoco. Livido ma composto, Shimon Peres: «Abbiamo avuto un regresso», recitò e fu tutto. Un inserviente spense le luci rompendo subito in singhiozzi e toccò a noi giornalisti consolarlo mentre scendevamo le scale facendoci luce con gli accendini. Quell'inserviente è come se avesse lavato i suoi ottant'anni nella varìchina, tanto lo rischiara la luce della gioia. Brandisce una bottiglia di champagne e la stappa con una bella bugia: «L'avevo messa in cantina quella notte terribile, aspettando la rivincita». E ancora: «Sono tanto felice ctté"non riescoa piangere». Piangono invece e senza vergogna, i ragazzi che intrecciano danze tenendosi per mano, saltano, si abbracciano, ridono. Il salone è addobbato con fiori e grandi bandiere nazionali, uno schermo largo e tanti altri più piccoli rovesciano la non-stop tv con una cascata di conferme che esaltano la gioia collettiva sino al parossismo. Guardo i vecchi che, in una poltiglia di consonanti, tengono il palco dov'è atteso Rabin. Hanno tutti la camicia bianca aperta sul collo, come usa nel kibbutz, sono abbronzati, non fumano. D'un tratto intonano un canto struggente che poco alla volta sconfigge il clamore camacialesco. Ora anche i giovani in canottiera cantano, e pure le damazze biondastre in abito da sera. E' una canzone della brigata Heller, nelle cui fila si formò Rabin. Nel 1947 la cantavano davanti al fuoco, nei bivacchi notturni tra un addestramento e l'altro. No, non sono nostalgie belliche, spiegano i vecchi la boristi, la cantiamo per rian nodarci alle nostre radici. Rabin s'è concesso al popolo laborìsta soltanto all'una di notte, quando tutti cantilenavano, come allo stadio, una sorta del nostro aé o o, «oha makarà-ha Likud achaz otal»: ohe, cos'è successo, il Likud l'ha mangiata (la m.). Quando Rabin appare sul palco degli scamiciati, elegante in un fresco cilestrino, la cravatta in tono con gli occhi azzurri, Leah, la moglie, al fianco secondo l'uso americano, è di colpo silenzio. Poi, nel salone saccheggiato dal fumo, dove l'acre sudore giovine degli attivisti in maglietta si mischia col profumo costoso delle signore in lungo cui Leah soffia bacetti, preceduto dal suono di un corno più lungo di quello che il rabbino Goren suonò alla presa di Gerusalemme, sale il canto adulatorio: «Rabin melech Yisrael» (Rabin re d'Israele)rE lui-si incupisce."** Una, due, tanti ragazzi gridano e infine tutti: «Sorridi, Rabin sorridi», e Rabin ha-un gesto tipicamente orientale riunendo le dita della destra, per dire «rega», un momento ma oramai è una bolgia: sorridi, perdiana, mica abbiamo perduto, che diamine sorridi. Uno solo è il sorriso, rapido come lo scatto d'un coltello e finalmente il «re d'Israele» parla. Come Ben Gurion. Appassionato ma scarno, duro persino. Dobbiamo restituire la speranza ai giovani, dare la casa e un lavoro a tutti, dobbiamo conquistare la pace. Shalom, gli fanno eco tutti, shalom, pace. La notte della disfatta, quindici anni fa: «Israele ha perduto l'anima», disse Golda Meir. Un anno dopo Israele perdeva per sempre Golda, forse senza neanche accorgersene. Io non so se Israele abbia oggi riavuto la sua anima, ma certamente ha ritrovato un leader. «Sii la coda del leone piuttosto che la testa della volpe» (Capitolo dei Padri, IV-20). Igor Mai lan
Luoghi citati: Gerusalemme, Israele, Tel Aviv
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