LA VITA DURA DI BESOZZI di Oreste Del Buono

LA VITA DURA DI BESOZZI LA VITA DURA DI BESOZZI Un giornalista «disperato» IORNALISTI come lui non ne esistono più. Una specie che è veramente scomparsa. Anche nel rievocarlo e nel rimpiangerlo, -non si riesce a evitare una certa incredulità, come se ci si volesse raccontare a ogni costo una favola.1 La favola disperata di Tommaso Besozzi; il più grande giornalista italiano del dopoguerra. Nel 1945 era arrivato alla sede della Domus di Gianni Mazzocchi in via Monte di Pietà dalla vicina via Solferino del Corriere della Sera. In via Solferino non l'avevano preso in gran considerazione e lui, malato di ipersensibilità, si era convinto di essere un inetto. Anche in quelle stanze in via Monte di Pietà, in cui si andava fabbricando l'Europeo si aggirava come un'anima in pena. Aveva quarantadue anni, era di Vigevano, doveva essere stato bellissimo senza accorgersene, ma ormai era arruffato e grigio e portava addosso i vestiti come un alto e magro spaventapasseri. «Che ha Besozzi?», domandava Arrigo Benedetti, il direttore, a Emilio Radius, il caporedattore, che conosceva meglio Tommaso Besozzi, avendoci lavorato insieme al Corriere. «Che vuole?». «Non ha pace», diceva Radius. «Prova a dargli da fare qualcosa. Se aspetti che parli lui...». Il primo servizio che gli assegnarono all'Europeo fu sulle risaie, un tema che, essendo di Vigevano, doveva poter sentire. Scomparve per qualche giorno e, quando si rifece vivo, lasciò sul tavolo di Benedetti una dozzina di cartelline incise dalla sua grafia minuta. Se possibile, preferiva non scrivere a macchina, ma con la prima penna o matita che si trovava sotto mano, su carta rigata strappata da un quaderno di scuola, sul rovescio bianco di una busta di lettera familiare, sugli spazi liberi di qualche fattura o di qualche pianeta della fortuna. Benedetti impiegò un poco di tempo a leggere quella dozzina di foglietti, poi lo mandò a chiamare, gli disse: «Il pezzo è bellissimo». Tommaso Besozzi lo guardò di traverso, diffidente, e riscomparve. Si rifece vivo solo dopo l'uscita del suo primo servizio sull'Europeo, alla conferma, insomma, che il direttore non lo aveva preso in giro. Ma restava sempre in allarme. Il primo trionfo l'ebbe nella primavera del 1949. C'era un soldato italiano a Nizza, Gino Corni, accusato di triplice tentato omicidio e condannato a vent'anni di lavori forzati, che si ostinava a proclamarsi innocente. Tommaso Besozzi s'incuriosì al caso, per quell'ostinazione nonostante il riconoscimento delle tre mancate vittime. Andò in Francia, vagò nella zona delle Alpi Marittime, passando da Autorper «che Gstato un'osteria all'altra, bevendo e parlando con la gente comune più o meno al modo del commissario Maigret di Georges Simenon. E, dopo un poco, telefonò al giornale: «Corni è innocente. Possiamo batterci per lui». «E perché?», domandò Benedetti. «Perché è mancino». I testimoni, infatti, dicevano di aver riconosciuto Corni perché "aveva la stessa corporatura e lo stesso accento emiliano del mancato assassino, ma riferivano con uguale sicurezza che aveva sparato contro di loro con la mano destra. L'Europeo condusse un'appassionata campagna e, alla fine, il presidente della Repubblica francese concesse la grazia a Corni, Tommaso Besozzi si portò dietro il mancino innocente in via Monte di Pietà, a documentazione che quella storia non se l'era inventata. L'estate del 1950 il bandito Salvatore Giuliano venne trovato ucciso in un cortile di Castelvetrano. Il comunicato dei carabinieri parlava di scontro armato, ma non era chiaro. Tommaso Besozzi telefonò al giornale: «Non è vero che è morto in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Lo ha ammazzato qualcuno dei suoi. Tutto il resto è falso. La versione ufficiale è pura invenzione. Qui, però, gli altri inviati l'hanno bevuta. E' un guaio. Che debbo fare?». Aveva interrogato gli abitanti di Castelvetrano, non gli avevano detto molto, anzi nulla, ma lui aveva interpretato i dinieghi, le reticenze, gli stessi silenzi. Si era buttato per terra come un indiano, a investigare il terriccio del cortile. Ed era sicuro che i carabinieri avevano messo in scena una commedia per proteggere l'assassino, e, dunque, l'assassino non poteva essere altro che un traditore domestico, un familiare, uno in grado di avvicinare Giuliano durante la latitanza. Benedetti non c'era, era in vacanza sulla Cisa, ma Radius non esitò. «Racconta la verità. Telefona il servizio entro due ore». «Saranno grane». «Facciamo tre ore. Poi lascia Palermo prima che esca il giornale. Non si sa mai». Radius azzeccò un titolo dei suoi, magistrali. Di sicuro si sa solo che è morto. Lo aveva ucciso il cugino Gaspare Pisciotta. In gran parte il primo Europeo si identifica con l'uomo che faceva gli scoop in Italia e all'estero. Ma lui non pensava agli scoop. Pensava alle storie umane, alle singole verità. Nella ca¬ Si sucon unon snel « pacità di leggere i fatti di cronaca, e nella capacità di scriverli in modo immediato e sapiente insieme, Tommaso Besozzi era impareggiabile. Ma il primo Europeo, che andava acquistando sempre più fiducia in se stesso grazie all'essere diventato un giornale d'opinione, in qualcosa non poteva identificarsi in Tommaso Besozzi: nella sua sincera, orgogliosa, patetica modestia, nel suo eterno vacillare tra smisurato pessimismo e apprensivo ottimismo. Poteva trascorrere un mese in Francia insieme con i guardiani dei fari, settimane in Etiopia con i superstiti camionisti italiani, giorni e notti sul Po o sulle montagne d'Abruzzo o sulle baleniere dell'Atlantico, tornava, scriveva bellissimi servizi oppure, spesso, non riusciva addirittura a cominciare a scriverli. I colleghi lo trovavano rintanato in sottoscala, cantine, sgabuzzini sempre più piccoli con intorno foglietti e foglietti sparpagliati con appena una o due parole sopra. «Non sono più capace»; diceva, «non conosco più la tecnica. Questo mestiere sta cambiando. Ce l'ho fatta a scrivere sinché ho creduto nel giornalismo, sinché ho creduto nelle cose...». Latitavano le cose e le parole, i nessi nel mestiere che lui trovava sempre più cambiato, irriconoscibile. Lasciò prima o poi l'Europeo, lavorò maggiormente, quando se la sentiva, per il Giorno, ma i rapporti con il mestiere diventavano sempre più difficili. Era il migliore, ma, per quella sua maledetta ipersensibilità che lo spingeva agli estremi dell'esaurimento nervo- so, si riteneva fuori gioco. Un giorno Radius scrisse di lui: «Non ho mai conosciuto un giornalista dalle possibilità più complete e mai uno che abbia tratto meno vantaggio dalle sue doti. Se domani si potesse inviare davvero un reporter sulla Luna, il servizio dovrebbe essere affidato a Besozzi; ma Besozzi, nella grande ora della sua carriera e di tutte le carriere giornalistiche, potrebbe esser preso da un senso di disgusto per gli spazi e rinunziare allo straordinario onore per andare in un'osteria a interrogare i pescatori di rane. Ne avremmo un servizio giornalistico di intensità unica e, giungendo intanto le prime corrispondenze dalla Luna, di successo minimo...». Quando Tommaso Besozzi lesse queste righe di affettuosa ammirazione, si amareggiò e disse a Franco Nasi, suo collega al Giorno: «Ecco, vedi, hanno dettato l'epigrafe per la mia tomba. Io sono già morto e sepolto e ora mi hanno messo sopra la croce». Le crisi di sconforto si ripetevano sempre più di frequente. In realtà, quella che il giornalismo fosse cambiato e stesse ulteriormente cambiando non era una sua invenzione malata, ma una crudele constatazione. L'impulso a cercar la verità s'afflosciava, nella rivendicazione di diritti economici, nell'incapacità di sacrificar dei privilegi a un mestiere progressivamente svuotato di senso. Tommaso Besozzi era uomo per metà del Novecento e per metà dell'Ottocento, non era sicuro di accettare il suo tempo, e questa insicurezza 10 tormentava non meno della sua ipersensibilità. Il terrore di essere naturalmente passato di moda, la necessità per tornare alla ribalta di realizzare servizi sempre meno interessanti per lui, come intervistare Eisenhower o inviare da Parigi corrispondenze sugli affari Nato o riferire su vertici economici e tecnologici, la ripugnanza a cambiar pelle e opinioni per sopravvivere in qualche modo finirono con lo staccarlo definitivamente da uno scrivere che rischiava di essere esercizio di falsità. Falsi interessi e false interpretazioni. Tanto per confermarsi almeno nessi stabili con le cose si dedicò a smontare e rimontare, ricostruire i mobili che si trascinava nei trasferimenti tra Milano e Roma, come se potesse esistere una sede ideale per smaltire i suoi affanni. Poi cominciò a costruirsi meticolosamente una bomba, mescolando zolfo, potassio e altri ingredienti chimici e, all'ora in cui si prende 11 caffellatte, la fece esplodere, ed esplose anche lui. «Noi che facciamo il suo stesso mestiere gli dobbiamo molto: tutti abbiamo imparato qualcosa da lui, da quelle sue cronache fitte come racconti, dalle quali, in quest'ultimo dopoguerra, soprattutto sui settimanali cominciò un nuovo stile giornalistico», ha scritto, alla sua tragica morte nell'autunno del 1964, Nasi, anche lui grande giornalista. «Ma gli dobbiamo anche qualche altra cosa, più importante di una ricetta professionale: gli dobbiamo 1 esempio di questa vita crudele, di questo suo lungo dramma vissuto senza mai chiedere pietà. Come chi si sacrifica camminando sull'orlo di un baratro e precipitando, perché altri cerchino una strada più sicura...». Purtroppo, quel nuovo giornalismo di cui parla Nasi, nonostante tutto, con disperato ottimismo, non è cominciato ma finito con Tommaso Besozzi. Anche Nasi si è ucciso per sconforto, precipitando giù dalla finestra, angelo senza ali. Nei suoi ultimi giorni rivedeva i testi, correggeva le bozze, curava l'uscita di Prima comunicazione, il mensile di informazioni e indiscrezioni sull'attuale giornalismo italiano. Oreste del Buono Autore di tanti scoop per «L'Europeo»: scoprì che Giuliano non era stato ucciso dai carabinieri Si suicidò nel '64 con un ordigno rudimentale: non si riconosceva più nel «mestieraccio» Tommaso Besozzi (al centro) durante un viaggio in Africa