UN MONACO CRISTIANO LUNGO I SENTIERI ZEN

UN MONACO CRISTIANO LUNGO I SENTIERI ZEN UN MONACO CRISTIANO LUNGO I SENTIERI ZEN / dialoghi tra Thomas Merton e Suzuki Apiù di trent'anni dalla terza Conferenza dei filosofi d'Oriente e d'Occidente nell'Università di Hawaii, Garzanti ripropone il testo di un autorevole interprete di parte cristiana, Thomas Merton, {l'autore di La montagna dalle sette balze, Nessun uomo è un'isola, Le acque di Siloe...) che in quella sede ebbe modo di dialogare col giapponese Daisetz T. Suzuki, studioso tra i più insigni del pensiero orientale. Un trentennio che non intacca, e semmai accentua, la pertinenza dei temi dibattuti nei lontani incontri: il concetto di «persona», di «solitudine», di «etica», di «conoscenza e innocenza» quali si configurano nel mondo religioso di oggi, muovendo dallo zen delle origini in rapporto alla spiritualità dei padri del deserto, ovvero i monaci egiziani del quarto e quinto secolo. E' quello infatti il periodo storico in cui sembrano riflettersi specularmente due manifestazioni così radicali di vita contemplativa. Ma una più severa analisi delle rispettive strutture e dottrine elimina presto ogni equivoco di stretta parentela e Merton, con voce sommessa, quasi intimidita, cavallerescamente riconosce allo zen un primato di assolutezza mistica, tanto da affermare: «Esso è diventato per noi un simbolo di rivolta morale... Io credo che lo zen abbia parecchio da insegnare all'uomo moderno». Sempre che, è opportuno ribadire, egli riesca a compiere «un taglio netto, una liberazione esplosiva dal conformismo unidimensionale» e sappia prendere le distanze da una cultura utilitaristica che ha raggiunto un organizzazione razionale totalitaria e, insieme, una disperata contraddizione con se stessa. Ardua impresa, come si può osservare, che sottintende l'e¬ sproprio del «vecchio individuo», l'assimilazione ontologica dello zen (il termine giapponese, ricordiamolo, traduce il cinese c'an, dal sanscrito dhyana, «meditazione»), nonché la dimestichezza con talune correnti rigoristiche giapponesi per le quali lo zen non è scuola né religione né misticismo e neppure somma virtù del buddismo, sebbene il buddismo zen occupi in larga misura la coscienza dei praticanti e si avvalga di precise regole, di un meticoloso rituale: 10 zendo, o sala di raccoglimento, la seduta zazen, il costume, 11 sedile loto, l'arte del tè, gli inchini, le tecniche indispensabili a conseguire il prayna, o saggezza trascendente. E ancora: gli zen, non avendo alcun dio che corrisponda all'analogo dio cristiano, sono da considerare atei. Un asserto che il sorridente dottor Suzuki non dubita possa suonare scandaloso al nostro apparato epifanico, mentre a ciglio asciutto un altro illustre maestro giapponese, Dogen, si spinge a pronunziare: «Chi considera lo zen una scuola o una setta buddista è un demonio». E tuttavia tocca a Suzuki, illuminato cultore di fedi e ascesi giustapposte, sintetizzare una scala di «valori zen» - seppur austeri, spietati, privi di risorse metaforiche - che risultino percettibili alle tradizioni che ci concernono, là dove scandisce: «Noi siamo tutti esseri sociali. Anche gli zen vivono dentro una società. Con una riserva, però: vogliono avere il cuore interamente sgombro dalle impurità prodotte dalla Conoscenza» e prepararsi alla felice smemoratezza di un io-sostanza materiale. E' dunque la Conoscenza certo necessaria nell'acrobatico discrimine del bene e del male, nell'amministrazione della giustizia, del lavoro e della ricompensa - che dovrà subire lo scacco finale ad opera dell'Innocenza, ossia dolla dissoluzio¬ ne di qualsiasi dualità, di qualsiasi moto effettivo, di qualsiasi insorgenza personalistica. Specie quest'ultima, ammette Suzuki, si rivela uno scoglio talvolta insormontabile nella disciplina spirituale; giacché non basta liberarsi dell'Io: occorre rendersi consapevoli che «non è mai esistito dall'inizio». E altrettanto dicasi per la «povertà». Non si diventa poveri nell'incolore paradiso zen. Semplicemente lo si è. E cita in perfetta sintonia Eckhart: «E' povero colui che non ha bisogno di nulla, che non conosce nulla, che non possiede nulla». Donde il trionfo del Vuoto metafisico, dell'Ignoranza, dell'Innocenza, e fugace sfioramento del mito biblico. Thomas Merton non si limita, in verità, a registrare le sottilissime dispute col dottor Suzuki e a trasmetterci il benefico effetto che ne ricava. Reputa doveroso trascorrere dalla sfera teoretica e teologica alla sfera didascalica e rimuovere almeno qualcuna delle false opinioni diffuse in Occidente dagli «arrangiatori» del buddismo zen. Ad esempio, che venga esaltata la negazione della vita, il disprezzo per il corpo, l'insensibilità alle gioie e alle pene del prossimo; oppure il frainteso senso del nirvana veicolato dai pessimisti romantici e ridotto a mero stato di trance. Per meglio vanificare il florilegio speculativo messo in circolo nei nostri quadranti, Merton attinge, oltre che a Suzuki, a maestri giapponesi e cinesi di eguale credito: Toshimitsu Hasumi o il dottor John C. H. Wu che aveva tenuto strepitosi corsi nelle università americane, o Kitaro Nishida (1870-1845) il cui peso nel buddismo zen equivarrebbe a quello di Jacques Maritain nell'ambito della filosofia cattolica. - Infine, scopo semidichiarato e comunque fondamentale della testimonianza: offrire un'indicazione critica «sui modi in cui non si deve discorrere dello zen» e non ci si deve calare su di esso, alla maniera di uccelli da preda, per trarne profitto («Sbaglia colui che intraprende lo studio dello zen con l'idea che ci sia da guadagnare alcunché. Lo zen non arricchisce»). Solo quando ci saremo sufficientemente allenati alle parabole, ai proverbi, ai paradossi, alle astrazioni di un universo mentale che impone di scegliere tra follia e innocenza, solo quando saremo sufficientemente spossessati, liberati da nevrotici bisogni di autoaffermazione e redenzione, e profondamente «impoveriti», potremo accogliere l'invito di Wittgenstein: «Non pensare, guarda!». (Curando di aprire bene gli occhi, come avverte l'autore nell'epilogo). Giuseppe Cassieri Thomas Merton Lo zen e gli uccelli rapaci Garzanti pp. 143. L. 11.000

Luoghi citati: Hawaii, Monaco