Wenders, fotografare per vivere

Wenders, fotografare per vivere Mostra per il regista tedesco a Losanna: tanti giovani, catalogo esaurito Wenders, fotografare per vivere Scatti elettronici sulla realtà che fugge LOSANNA DAL NOSTRO INVIATO «La nuit de la photo», venerdì prossimo, tra le sei del pomeriggio e l'alba, nel parco che scende verso il lago e nell'elegante palazzetto inizio secolo del Musée de l'Elysée, è dedicata soprattutto a Wim Wenders, del quale il museo specializzato ospita adesso il lavoro di fotografo, con un bel programma: festa, suoni, luci, più Hammett e due cortometraggi del regista. Il catalogo della mostra di fotografie di Wenders s'è esaurito nei primi tre giorni e i visitatori, quasi tutti giovani, sono moltissimi, ininterrótti, estatici: un'altra prova del gran fascino esercitato da Wenders sui ragazzi, che amano pure (forse anche più degli altri) i suoi ultimi film molto sentimentali e un poco predicatorii, ammalianti e ideologici, avveniristici e ammonitori («viviamo male, guardiamo male, leggiamo male, stiamo male»), osculanti tra desiderio amoroso e allarme sociale, tra mediologia e sogno. La mostra Wim Wenders fotografo, allestita da Irene Attinger, raccoglie immagini recenti d'Australia; immagini d'America già viste nella mostra del 1986 al Centre Pompi dou a Parigi, «Written in the West»; nuovissimi esempi della «pittura elettronica» realizzata in questo 1992 a partire dalle fotografie, con l'assistenza di Sean Naughton e della Toppan Printing di Tokyo. Fotografie di Wenders sono state esposte nell'ultimo decennio in Francia, a Milano, in Portogallo, a Miami, Stoccolma e Copenaghen, ad Amburgo, Zurigo e Monaco, a Los Angeles, Tokyo e Kyoto. Non è certo il solo regista-fotografo (Dennis Hopper, più interessato alle facce, è altrettanto bravo) né il solo fotografo-regista (Brace Weber), ma per lui fotografare non è un'attività o un'arte secondaria rispetto al cinema, è invece un modo parallelo d'esprimersi, di tentar di capire e catturare la realtà, di risolvere «il conflitto tra sedentarietà e nomadismo, tema essenziale dei suoi film i cui protagonisti hanno il destino d'essere stranieri in patria e senza patria in terra straniera», come scrive Charles-Henri Favrod. C'è una frase del diario di Cézanne che Wenders cita spesso: «Le cose vanno male. Bisogna affrettarsi se si vuole vedere ancora qualcosa. Tutto sparisce». Tre affermazioni che al regista sembrano condensare la funzione, la necessità dell'arte: insoddisfazione per lo stato delle cose, salvaguardia che non confonde conservatorismo e conservazione d'una bellezza caduca, resistenza contro la corsa cieca d'un mondo che distrugge quanto si oppone al suo andare. C'è il verso d'una canzone dei Kinks che Wenders cita altrettanto spesso: «People take pictures of each other just to prove that they really existed», la gente si fotografa a vicenda solo per avere la prova d'essere realmente esistente. E nei suoi film la fotografia torna non soltanto in certe inquadrature fisse che sospendono il dinamismo cinematografico, non soltanto nel lavoro preparatorio che identifica i luoghi dell'azione futura, anche come allusiva presenza, fin dall'inizio: in Alice nelle città, 1974, Philip Winter fotografa con la Polaroid tutto ciò che lo circonda eppure si lamenta «non ritrovi mai quello che hai visto», la realtà seguita a sfuggire aU'immagine che pretende di fermarla. L'ultimo film di Wenders, Fino alla fine del mondo, in parte girato in Australia, torna come in uno scambio costante nelle fotografie della mostra al Musée de l'Elysée. Come in quasi tutte le fotografie di Wenders, le figure umane sono rare: invece, sconfinati paesaggi orizzontali nei colori della terra e del cielo; immense formazioni montagnose e deserti preistorici, da inizio del mondo; orizzonti illimitati che incantano lo sguardo europeo uso ai cieli chiusi e alle folle delle città; binari abbandonati, stoppie, macchine rovesciate arrugginite e relitte, serbatoi d'acqua disseccati, cimiteri d'automobili. Immagini dense, drammatiche, che segnano ima differenza con le immagini d'America pure esposte nella mostra. Nel 1983, Wenders che vagabondava nei grandi spazi non urbani (Arizona, Texas, New Mexico, California) subiva ancora, dicono i critici specializzati, l'influenza di Robert Frank, fotografo americano degli Anni Cinquanta amico di Ke rouac, fotodiarista lirico e simbolico; soprattutto, subiva la malìa della cultura popolare americana che aveva «salvato la sua vita» di ragazzo cresciuto nella Germania del dopoguerra. Risultato, una strana mescolanza di desolazione e struggimento amoroso, di accostamenti facili e desiderio, di iperrealismo e curiosità emozionata: l'immobilità solitaria dell'atrio d'un piccolo albergo, divano rosso, rosso distributore di Coca Cola; il presepe di sta¬ tue lignee, un cowboy e tre ragazze, al Motel Old Trapper di San Fernando; gli alti schermi in abbandono dei drive-in, i cinema chiusi e cadenti dai nomi brillanti o pomposi; e la Monument Valley di John Ford, naturalmente. Rispetto a quello stile, le recenti immagini australiane risultano quasi giapponesi, depurate, severe, essenziali, imperiosamente dominate dal bisogno di ritrovarsi solo di fronte al paesaggio e d'impregnarsene. Le opere attuali di «pittura elettronica», montate su supporti luminosi, sono anche ritratti, ma infinitamente lontani dall'eloquenza psicologica e sociologica di fotografe come Bettina Rheims o Annie Leibovitz: William Hurt in bianco e nero con la faccia ectoplasmatica, con l'espressione dell'autodisprezzo e del dolore di certi ritratti di Munch; Solveig Dommartin, la compagna del regista, in bianco e nero, col viso alterato da uno sguardo diffidente, come di chi stia perpetuamente in agguato. Più numerosi dei ritratti, paesaggi, giardini con bambini, astrazioni, in acidi colori giallo, arancio, rosso, verde, mauve, elaborati alla maniera della pittura «pointilliste» o impressionista. Sperimentazioni simili, che appartengono all'esperienza della pop art o d'altra pittura degli Anni Sessanta, acquistano per Wenders una inedita modernità dal fatto d'essere realizzate elettronicamente. Il regista descrive questo suo nuovo lavoro con orgoglioso entusiasmo: «Abbiamo trasferito una serie di mie fotografie su nastro ad alta definizione, le abbiamo elaborate digitalmente, in qualche caso attraverso oltre un centinaio di passaggi ed effetti diversi, imponendo alle imma- gini ogni manipolazione possibile... Il mio assistente Sean Naughton e io siamo convinti che il nostro cervello addormentato funzioni in modo misterioso, cacofonico, incontrollato e tuttavia autoregolato: a volte deposito d'immagini, a volte profeta o poeta visionario. Così abbiamo cercato di lasciare libero corso all'elettronica...». Alla fine del processo, spiega, le fotografie avevano acquistato profondità e un'altra dimensione, l'alta tecnologia riportava alla pittura, Tur- ner, Renoir, Seurat, Degas, Picasso, Kandinsky: «Siamo, fieri d'aver fatto un lavoro da pionieri e d'aver dimostrato che l'alta definizione comporta vaste possibilità artistiche che possono arricchire la fotografia e il cinema del XXI secolo, contribuire alla nascita d'un nuovo linguaggio-immagine...». Bene. Poi per caso, all'aeroporto di Ginevra, capita di vedere certe cartoline colorate della città, cigni bianchi sul lago, la rada, una vela lontana, un paesaggio, identiche ai prodotti della pittura elettronica, fotografie già trattate alla maniera di Seurat o di Renoir: industria e commercio saranno arrivati prima di Wenders fotografo e dell'alta definizione? Lietta Torna buoni Dall'America all'Australia, le immagini dei grandi spazi Win Wenders e, sopra, «Arizona», 1983, una fotografìa tratta da «Scritto nel West». Nell'immagine grande, una foto di Bettina Rheims: «Marta con la sigaretta», 1987