LONGANESI? Impariamo da lui di Mario Pannunzio

LONGANESI? Impariamo da lui Lo storico Lanaro attacca l'ideatore di «Omnibus», Montanelli scende in campo per difendere il maestro OGANS OGS Impariam a lui PMILANO ROCESSO a Leo Longanesi, che prima fu fascista purissimo e poi portò 1 l'acqua al mulino della de. Lo mette sotto accusa Silvio Lanaro nella sua Storia dell'Italia repubblicana appena pubblicata da Marsilio. Il fondatore di testate famose come L'Italiano (1926) e come Omnibus (1937), il piccolo padre di tanta parte del giornalismo italiano agli occhi dello storico appare colpito dal morbo più italiano di tutti, il trasformismo. Lo si chiama piccolo padre solo perché era davvero piccolissimo di statura. Sembra ne soffrisse assai. Si definiva «carciofino sott'odio». Il poeta Cardarelli un giorno disse: «Longanesi stanotte era infuriato, ha passeggiato fino all'alba, su e giù, sotto il letto». E il pittore Maccari: «Longanesi è nato nel secolo decimo nano». Lo storico Lanaro ripesca dunque un articolo di Giuseppe Prezzolimi del '22 (sempre Prezzolini di mezzo, attaccato a sangue l'anno scorso da Asor Rosa nella prefazione all'Arte del persuadere, ristampata da Liguori). Lo scrittore e polemista toscano propugnava una società degli «apoti», cioè di coloro che non la bevono, spiriti liberi e scettici al di sopra delle rissose bazzecole politiche, anche di quelle più invadenti e sanguinarie come fascismo e comunismo. Gli apoti vivono di disincanto, risolvono i conflitti in ironie all'arsenico, in scintillìi formali, in ghiribizzi dissacranti lontani da ogni severità di pensiero complesso: un atteggiamento volatile, in definitiva, pronto a servire il padrone del momento. Il ritratto dell'apota calza a pennello, per Lanaro, anche in questo dopoguerra. C'è una triade somma dell'apotismo: Guareschi, «cantore dolce e litigioso dell'arcadia apolitica», Giannini, «inventore del vociferante qualunquismo plebeo», e il minuscolo vivacissimo Leo, vero e proprio «principe», il più emblematico di tutti.' L'apotismo per Lanaro è «il capitolo centrale della storia dell'opinione pubblica nel dopoguerra». Esso fa capire il generale assestamento di quasi tutta la stampa «indipendente» in quel periodo. Coinvolge Missiroh, «ragionatore smagato che non crede in nulla ed è pronto a vendersi a tutti», Ansaldo, «fautore di una versione pigra e salmodiante», e Montanelli, «colonna ideologica» dell'ultima invenzione di Longanesi, Il Borghese: Longanesi lo diresse dal '50 al '57, quando morì a 52 anni. Indro Montanelli salta su, difende appassionatamente Longanesi. Gli ha dedicato una biografia insieme con Marcello Staglieno (Rizzoli). Anche lui ha fatto peraltro le spese delle battute pizzicanti del suo amico e maestro: una volta Longanesi lo definì «uno che spiega benissimo agli altri quello che non capisce», e un'altra volta «un misantropo che vive in mezzo agli altri per sentirsi più solo». Ribatte Montanelli: «Longanesi trasformista? Il più italiano degli italiani? E' vero, ma nel senso opposto: incarnava l'anarchico italiano. Io mi glorio di discendere da quella gente lì, l'unica che diceva cose pacate nel dopoguerra. Il processo sommario al fascismo fu una cosa infame». Lanaro esibisce come prova di adeguamento culturale l'opuscolo di propaganda democristiana che Longanesi scrisse nel '48, «Non votò la famiglia De Paolis». Non è vero. Questo Lanaro non sa un cazzo. Quel libretto fu scritto da Uguccione di Sorbello, che non è uno pseudonimo: costui era un curioso personaggio, mezzo diplomatico e mezzo missionario di madre americana, uno intelligentissimo e coltissimo che non ha mai combinato nulla. Riuscì a far dare il nome di Giovanni da Verrazzano al celebre ponte in America. Era conte e aveva delle terre sul Trasimeno. Dopo le elezioni del '48, Longanesi guadagnò rcosa quello che fu comunque un appoggio alla de? Leo raccontò sulla Gazzetta del Popolo un aneddoto. Il giorno dopo le elezioni fummo tutti invitati (c'era lui, c'ero io, c'erano Guareschi, Mosca e altri) allo spoglio delle schede nella sede milanese della de. Sedevamo attorno a un tavolo e a un certo punto venne portato un grosso panettone. Quando il panettone arrivò davanti a Lon ganesi e a me, fummo saltati. Rimanemmo senza. Fa sbudellare dal ridere. Una premonizione. La verità è che all'indomani del '48 Longanesi cominciò a attaccare la de, gliene disse di tutti i colori. «Non saremo mai assolti dal delitto che abbiamo commesso di appoggiarla», ripeteva. Questo poveretto di Lanaro! Parla di cose che non sa. Dice che voi foste gli «abati laici della de». Queste cose le può dire perché gli italiani si sono turati il naso e hanno votato de. Fu una scelta necessaria. Altrimenti questo coglione sarebbe stato un funzionario del pei. Lui si dichiara «indipendente di sinistra, ma indipendente per davvero». Dice che non ha mai avuto una tessera. Ne ho pieni i coglioni di questi qui. Indipendente di sinistra? Ho capito: erano alla greppia del pei, come Rodotà. Li conosco be- nissimo per lunga esperienza. Non le vede come «anime belle»? E chi sono? Son tutte brutte. I trasformisti sono quelli lì, sempre dalla parte del più forte. Lanaro nel suo libro definisce lei, Montanelli, «corsivista tra focoso e salottiero». Nei salotti non ho mai messo piede. Se uno dice di avermi incontrato nei salotti, me lo dimostri. Scrive anche che lei «sa tingere il conservatorismo di sfumature radicàleggianti, sovversive, arrabbiate». C'è del vero. Di Longanesi, Lanaro dice che è «personaggio non del tutto alieno dai vizi che rimprovera agli italiani vigliacchi, opportunisti, vanesi». Longanesi fu vigliacco? Mai. Rischiò sempre. Tutti i suoi giornali furono soppressi: basterebbe questo. Fu opportunista? Nemmeno. Fu sempre controcorrente. Che cosa ha avuto dal fascismo? Che cosa dall'antifascismo? Me lo dicano. Se ci fu un anticonformista, un provocatore, fu lui. Questo atteggiamento nasceva dal suo carattere, dai suoi umori e malumori, non da ideologie: «Credi ma disubbidisci», era il suo undicesimo comandamento. Si fotteva della cultura. Ne aveva, intendiamoci. Nella sua fedeltà a una certa Italia strapaesani, a una tradizione 'anche ciabattona, amava soprattutto la cultura francese, il memorialismo: Renard, i Goncourt. Però non lo diceva. Era insomma un anarchico romagnolo pieno di contraddizioni. Come me. Insofferente di ogni massa, di ogni conformismo, di ogni direttiva dall'alto. Un antigregario. Ce n'è bisogno sempre, di questa gente. Era vanesio? Se c'era un uomo che distruggeva anche se stesso, era lui. Ha buttato via un talento folgorante. Stia zitto, questo Lanaro. Longanesi era tremendo con tutti, anche coi suoi pulcini. Anch'io ebbi litigi tremendi. Da ultimo non accettava la mia interpretazione della rivolta ungherese nel '56: per me era nata nei ranghi comunisti, per lui era una rivolta liberale. Ci conciliammo venti giorni prima che morisse. Stemmo un anno senza parlarci e poi grazie a Dio mi mandò a dire che voleva vedermi. Lo portai nel vecchio gruppo, da Pannunzio, da Benedetti. Era geloso anche della mia amicizia con Matteo Matteotti. Era uterino, passionale. Il suo scetticismo era una difesa: non voleva essere coinvolto, non voleva credere, nemmeno a se stesso. Un campione di disinteresse: così ricorda Longanesi? Dilapidò se stesso per gh altri. E' morto senza un soldo. Chi c'è oggi come lui? L'ultimo fu Flaiano, a cui ordinò Tempo di uccidere. «E' un bel libro», gli disse; ma glielo fece correggere in varie parti. Il suo giudizio finale fu: «Quest'uomo non diventerà mai un romanziere: non ne ha il fiato. Sarà un grande battutista». C'è un po' di Longanesi in lei, Montanelli? Quel che c'è in me di paradossale viene da lui. Forse io ne ho la tendenza, ma lui l'ha coltivata. Sono disinteressato anch'io, ma non sono dilapidatore del talento e soprattutto non sono un talent-scout, non ho la sua bacchetta rabdomantica. Un giorno Longanesi trovò me e Pannunzio che ridevamo a crepapelle leggendo un poema in rima, Il Piave, sulla rivista dell'iperfascista Telesio Interlandi. «Perché ridete?», chiese Leo. «C'è uno che scrive puttanate enfatiche», gli rispondemmo. Lesse anche lui e disse: «Siete due cretini. Questa è una puttanata ma sotto c'è del talento». L'autore era Vitaliano Brancati. Glielo portai: Brancati tremava, era emozionatissimo. Longanesi gli si rivolse così: «Lei chi crede di essere? Lei non è né D'Annunzio né Sem Benelli. Sa cos'è lei? E' un Gogolino di Catania. Mi faccia un romanzo sui dongiovanni siciliani». E venne fuori Don Giovanni in Sicilia. Un altro giorno Longanesi lesse sul Marc'Aurelio delle note umoristiche di un certo Augusto Guerriero, funzionario alla Corte dei conti. Glielo cercai e davanti a me gli disse: «Lei mi scriverà degli articoli di politica estera». «Io? - rispose l'allibito Guerriero -. Non ne so nulla». «Appunto per questo. Lei legge l'inglese? Sì? Allora mi scriva di politica estera». Gli trovò pure lo pseudonimo, Ricciardetto. Longanesi era questo: genio puro. Lo stesso fece con Irene Brin: Leo lesse due o tre cose sue sul Lavoro di Genova, la chiamò e le ordinò delle biografie di donne famose. Irene Brin è la vera maestra delle giornaliste d'oggi, soprattutto della Cederna, che fa finta di non ricordarsene. Per finire: una volta il giovane Moravia, che è il miglior Moravia, portò a Omnibus un racconto. «Me lo lasci qui», gli fece Leo, e mi buttò il testo dicendomi: «Prendi il primo capoverso e mettilo in fondo. Moravia bisogna rovesciarlo come le stoffe inglesi: è meglio il rovescio del dritto». Era vero: Moravia funzionava meglio. Come erano i vostri rapporti? Io ero il più suo di tutti i suoi. L'ho seguito sempre, anche quando vedevo che sbagliava. Lo incontrai nel '37, quando fece Omnibus, il primo rotocalco .italiano, e mi inventava gli pseudonimi: non potevo firmare per via delle mie corrispondenze dalla Spagna..L'ho seguito fino al primo Borghese: lì mi dava pseudonimi che sapevano di campo di concentramento, come Antonio Siberia. A Milano stavamo insieme anche a pranzo. Pagavo io: lui non pagava proprio, un po' perché era tirchio, un po' perché non aveva soldi. Ma aveva ragione a farmi pagare: ogni pranzo erano quattro o cinque idee per articoli. Povero piccolo grande Leo. Claudio Alta rocca «Il suo undicesimo comandamento: "Credi ma disubbidisci". Di questa gente c'è bisogno sempre» Montanelli e nell'immagine grande Leo Longanesi. Nn alto da sinistra Mario Pannunzio ì||v e Vitaliano Brancati

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