Genova sfratta i camalli dalla storia

Genova sfratta i camalli dalla storia ULTIMI FUOCHI SUL FRONTE DEL PORTO Dopo gli scontri gli imprenditori sfidano il monopolio degli uomini di Batini Genova sfratta i camalli dalla storia «Erano troppo abituati a vivere di rendita aspettando le navi da caricare e scaricare» GENOVA DAL NOSTRO INVIATO Alle 13,15 Sebastiano Gattorno ha la faccia di uno che esce da un consiglio di amministrazione, ma non per questo ha perso l'allineamento del bordo del fazzoletto bianco con quello del taschino dell'abito grigio e anche per oggi il suo autista è riuscito nell'acrobatica manovra di parcheggiare la chilometrica Bmw blu scura dentro il cortiletto di palazzo Di Negro, dietro piazza Banchi, al margine Sud del centro storico più grande e più marcio d'Europa. Qui ci hanno speso un po' di miliardi per ristrutturare, resta solo qualche ombra bianca sugli affreschi cinquecenteschi della volta del salone che adesso ha un grande tavolo nero al centro, dove c'era il bancone abbonamenti dell'Ann (azienda municipale trasporti) quando il palazzo cadeva a pezzi. Siamo dietro a Caricamento, a cento metri dal porto vecchio, quasi sotto l'ombra dello scheletro del Bigo inventato da Renzo Piano per l'Expo di Colombo, in mezzo alla Genova di sempre e qui Gattorno, vincente e feroce, sentenzia: «I portuali? Non c'è più niente per loro». Ventiquattro ore dopo la scazzottata tra gli ultimi uomini di Paride Batini, mitico console dei camalli e i terminalisti di Bruno Musso, armatore: l'ultimo atto forse decisivo - sul fronte della privatizzazione del porto di Genova. Da una parte l'esercito sempre più esiguo dei portuali monopolisti e signori delle banchine; dall'altra gli imprenditori che vogliono prendersi il porto, competere con Rotterdam e Anversa dove «movimentare» un container costa circa cento dollari mentre qui ce ne vogliono più di duecento. Una guerra antica arrivata alla fase cruciale: dalla prossima settimana si va per carta bollata, anche a Genova saranno i pretori a sancire che il monopolio dei camalli non esiste più, come ha già detto la Cee, i magistrati di La Spezia e di Massa. Batini e i suoi dovranno venire a patti, all'Associazione industriale hanno già le mappe pronte con la destinazione delle banchine ai gruppi privati: con Musso ci sono i Ferruzzi (Eridania) e Attilio Oliva, presidente degli industriali. Con Batini nemmeno più tutta la Cgil e il vecchio pei genovese. Genova è oggi l'Expo di Colombo, l'orologio di piazza De Ferrari che segna a ritroso i secondi che mancano al cinquecentesimo anniversario della scoperta dell'America, il palazzo Ducale ristrutturato e riaperto, il nuovo Carlo Febee; ma è soprattutto la scommessa sul porto. O si fanno i terminal privati o si muore intorno a ponte dei Mille di risorgimentali memorie. Proprio per questo è utile guardare in faccia Sebastiano Gattorno, che non ha ancora compiuto 35 anni, ma può già vantare di aver portato il fatturato della sua società (la SGF) da venti a 150 miliardi in cinque anni, radunandoci intorno i rampolli della Genova bene, dai Costa, ai Dufour, dai Venina ai Delle Piane. «Qui - dice Gattorno - non vendiamo prodotti, ma la nostra azienda, noi stessi. E io sono per la valorizzazione degli amici». E' una parabola della Genova possibile, vecchi nomi e nuovi mestieri e imprenditori. La ragione sociale è «logistica integrata dei trasporti» che tradotto significa assicurare a chi produce una cosa tutti i servizi occorrenti per farla arrivare a chi la consuma, finanziando e riunificando i segmenti dispersi del lungo ciclo. Un lavoro che non può prescindere dal porto, ma che anzi lo cerca e rompe con lo schema vecchio genovese: «Le nicchie di mercato non sono più sufficienti per fare arrivare lavoro. Qui si era abituati ad attendere, a vivere di rendita aspettando le navi da caricare e scaricare». Non è più così e tanto per cominciare Gattorno si è andato a cercare soci lontano dall'ombra della Lanterna: a Torino ha trovato i Recchi, a Milano la Uno holding. Non si può dire che sia un selfmade-man dal momento che alle spalle della sua poltrona ci sono le stampe dei vascelli a vela che la sua famiglia duecento anni fa mandava in giro per il mondo, ma certo Gattorno per le abitudini di qui si può dire uomo nuovo che vanta di aver iniziato come «fattorino di sesta categoria senza obbligo di affrancatura meccanica» in una grande agenzia marittima. Silenziosa e indecifrabile Genova prova a rimodellarsi. Al nono piano del Carlo Felice ristrutturato, c'è un sovrintendente come Francesco Emani che nel ruolo di manager della lirica ha trascorso undici anni alla Scala e altri undici all'Arena di Verona. I numeri dicono che il Carlo Felice al momento risulta il primo teatro italiano per numero di recite, il secondo per spettatori paganti, il terzo per introiti di biglietteria. Sala piena all'85 per cento contro la media nazionale del 50. Ma non basta. Lo Stato - naturalmente - è avaro perché ci vorrebbe un surplus di finanziamenti di almeno cinque miliardi per affrontare con serenità il '93: «L'incertezza è gravissima, sento il peso della responsabilità, ma lo Stato deve saper scegliere e premiare il metodo di lavoro». Ma della città, che dice il neo genovese Emani? «Mi sembra esatto il giudizio che ne dava Francesco di Sales confrontandola con Venezia: là lo Stato è ricco e i cittadini poveri; qui povera la Repubblica e ricchi i cittadini». Infatti per riaprire il Carlo Febee c'è voluta la sponso¬ rizzazione del petroliere Riccardo Garrone che ha impiegato ben undici miliardi nell'opera e che ora si dice già deluso: «Lo stanno gestendo come un qualunque ente pubblico». E si intrawede sull'orizzonte il rischio che passata la sbornia dell'atmosfera colombiana (peraltro percorsa da mille polemiche) tutto si ripieghi, le case si richiudano, i genovesi tornino all'understatement del loro privato. La signora Ines Rossi De Ribeis, che è presidente dell'associazione Carlo Felice, ma soprattutto gran donna di mondo, ci spiega bene questo stato d'animo: «I genovesi sono pieni di grandissime qualità che coltivano di nascosto. Nessuno di noi sa dire con certezza quali sono gli interessi dei nostri amici. E nessuna classe sociale ama apparire. E' uno sbaglio, ce ne stiamo rendendo conto. Ma qui non si grida, al massimo di bisbiglia». La notte di piazza De Ferrari, per esempio, è oggi già deserta, sembra fredda anche la facciata laterale del palazzo Ducale, colorata di trompe l'oeil. A mezzanotte, in via Venti Settembre, resta aperta solo la gelateria Tonitto e l'unico spettacolo sono tre coppie di americani che danzano allacciati alla musica di Bocca di Rosa, cavallo di battaglia della marginante genovese di Fabrizio De André. Ad applaudire e blandire c'è solo un cameriere; due guardie giurate osservano fumando. Un consulente intemazionale come il professor Victor Uckmar considera quasi una sua vittoria personale l'istituzione della zona franca di cui pochissimi si erano accorti: «Genova dorme sonni lunghi: speriamo che un giorno si svegli». Dice di aver fiducia nell'«ottima gioventù», che però ha poche opportunità: «Un giovane della Bocconi al secondo anno ha già quattro offerte di lavoro; mentre a Genova l'altro giorno mi è capitato di trovare al casello dell'autostrada un laureato con 110 e lode: ritirava i ticket del pedaggio». Riccardo Garrone aggiunge che la gestione del Carlo Felice potrebbe anticipare il prossimo futuro di tutto il resto: «Questa città è mal abituata ad avere aiuti dallo Stato. La classe politica genovese ha dato ancora prova di inaffidabilità; i privati - dice Garrone - sono sparuti, non esiste uno zoccolo forte imprenditoriale. E' incredibile che ieri sia andata così in porto». E questa volta, scrive il Secolo, la città è rimasta indifferente al pugilato in calata Ignazio Inglese; il direttore del Lavoro dice che la barricata dei portuali sembra sempre più a un avamposto piazzato nel deserto. L'operazione dell'armatore Bruno Musso, che ha mandato la sua nave «Vento di Levante» come rompighiaccio per tentare di scaricare con i suoi uomini e forzare le resistenze dei portuali, sembra un trappola combinata apposta per provocare l'incidente. Il presidente degli industriali Oliva, che quand'era giovane suonava bene il sax nelle balere accanto a Tenco e De André, conferma che siamo allo scontro finale. Con il presidente del porto ha fatto partire l'opera di privatizzazione: al pubblico il compito di dettare le regole, ai privati la gestione. «Come in tutti i porti d'Europa». Batini rivendica il molo della Compagnia; in realtà vuole soprattutto sopravvivere, come gli operai di Cornigliano dell'acciaio pubblico in smobilitazione l'altro ieri manifestavano per il loro posto. Ma Ohva fa i conti e dice che se la privatizzazione si completerà ci sono mille e cinquecento posti di lavoro sicuri a Genova (ora i portuali sono meno di mille) e quasi altrettanti nel nuovo porto di Voltri dove la Fiat sta investendo 250 miliardi.«Siamo in fondo al tunnel - dice OUva - e Genova deve potersi rendere necessaria a Torino e Milano, tutti se ne devono convincere». Ma nella Genova di oggi la questione si risolve ancora a pugni. E i camalli hanno ancora le mani forti. Cesare Martinetti I l il II I I I 1 1 1 I La città assiste indifferente alla fine di un piccolo mito Uckmar: speriamo che presto si svegli dal sonno tanto lungo il professor Victor Uckmar:. «Genova dorme lunghi sonni, speriamo si svegli» Paride Batini, al centro, durante gli scontri sullla banchina. Nell'immagine grande la città di Genova alle spalle del porto