A Gerusalemme, nel nido dei Falchi di Giuseppe Zaccaria

A Gerusalemme, nel nido dei Falchi Pochi giorni a un voto storico: Israele pare stregata dagli slogan dei conservatori in rimonta A Gerusalemme, nel nido dei Falchi ULikud insiste sui Territori: «Case su case su case» E la gente inneggia agli ultra che girano con il mitra GERUSALEMME DAL NOSTRO INVIATO «Batìm - albatìm - albatìm»: dal piccolo palco del comizio, lo slogan scandito da Ariel Sharon si spaile per i giardinetti pelati di Kiriat Jovel. «Batìm - albatìm albatìm», intona dietro le transenne la piccola borghesia del quartiere. I ragazzini avvolti nelle bandiere del Likud danzano al ritmo della litania. «Batìm - albatìm - albatìm»: nella moderna storia d'Israele la colonna sonora è cambiata. Si snoda su un tema che ossessivamente ripete: «Case su case su case». Case da costruire, da moltiplicare, case in cui collocare i 430 mila immigrati degli ultimi quattro anni, case per una popolazione improvvisamente cresciuta del dieci per cento, e da affittare a prezzo politico a 200 mila disoccupati. Se quattro anni fa a fare da sottofondo a una contesa elettorale drammatica era soprattutto lo scalpicciare di sassi dell'«Intifada» e il cupo rimbombo dei lacrimogeni, oggi ad avvolgere e sfibrare il Paese è il ritmo cantilenante di questa invocazione. Sta promettendo proprio nuove case, il superfalco Sharon. Ma nello stesso momento un'auto con le insegne dei laboristi attraversa la piazza rilanciando da un altoparlante lo slogan «Israele aspetta Rabin». Anche il Labour party parla di case, ma per sottolinearne la drammatica carenza e per promettere un futuro migliore ai diseredati. Due poliziotti intervengono, l'auto deve allontanarsi in fretta. Alla campagna elettorale di questi giorni, simili sgarbi non sono nuovi. Tutt'altro: c'è stato chi ha spinto un corteo di asini fino alle sedi laburiste, chi ha ironizzato su una presunta tenden- za di Yitzhak Rabin alle libagioni, chi ha distribuito profilattici con la scritta «attenti al piccoletto», con greve riferimento all'altro Yitzhak, il primo ministro Shamir. Dal suo ritiro a 80 chilometri da Gerusalemme, lo scrittore Amos Oz commenta, amaro: «Settantanni di guerra con gli arabi stanno nevrotizzando la nostra società: è come se da 70 anni vivessimo la condizione di Rushdie. Ai messaggi complessi si stanno sostituendo le posizioni di quelli che hanno sempre risposte semplici». Sì, quella che dal nostro punto di vista dovrebbe dire se nel Medio Oriente la pace ha un futuro, si sta rivelando sempre più un'elezione condotta su toni feroci eppure in qualche modo straniata, lontana dalle questioni di fondo. Le trattative con gli arabi, la questione degli insediamenti nelle zone occupate restano lì, congelate, collocate su chissà quale sfondo remoto. Quel che preme, adesso e qui, non è sapere se Israele pensa di concedere, se non uno Stato, almeno l'autonomia al palestinesi, non è confrontarsi sul ritmo degli insediamenti nei Territori o sulla questione del Golan, rivendicato dalla Siria. No: importa capire se la politica del Likud davvero condurrà al totale congelamento dei prestiti Usa, se davvero agli intellettuali fuggiti dalla Russia tutto quel che Israele può offrire è un futuro da manovali. Se e fino a che punto i pronipoti degli eroici pionieri possano accettare, in nome della Grande Israele, un futuro di rinnovato sacrificio. A far rispondere di no, basterebbero i connotati di questa campagna elettorale. Proprio ieri il professor Moshe Lissak, della Hebrew University, ha illustrato i risultati di una ricerca per concludere che mai, in Israele, la partecipazione politica era stata così scarsa. Solo negli ultimi giorni, i laboristi hanno cancellato trenta incontri elettorali, e il «Likud» ha perfino annullato la manifestazione di chiusura, prevista a Tel Aviv. I comizi sono ra¬ rissimi: c'è chi ha scelto il «porta a porta», chi batte i supermercati, chi si affida alla tv. Ecco un altro dei segni del mutamento. Mai finora era accaduto che il magma di forze che costituiscono la società di Israele emergesse così netto, venisse rappresentato in maniera così plastica. Tutto, ancora una volta, si deve al Grande Comunicatore: all'esigenza, cioè, di sintetizzare proposte politiche e posizioni religiose, critica sociale e prospettive territoriali in uno «spot» di pochi minuti. Ogni sera, per mezz'ora «Tashdirè Bechirot» condensa in una straordinaria galleria di idee e personaggi tutte le tensioni del Paese. Venticinque Uste frutto di complesse alleanze fra oltre 30 partiti: c'è davvero di tutto, in quella mezz'ora. Moshe Levinger, leader dei coloni, condannato a pochi mesi per l'uccisione di un commerciante arabo, appare col mitra a tracolla mentre attraversa, festeggiatissimo, un «kibbutz». L'osannano, lo abbracciano. Poi, d'un tratto, lui scompare dal quadro e si sente un boato. Tranquilli, non gli è successo nulla: eccolo tornare sorridente con l'aria di chi dice: «Li ho sistemati io». Ecco Yitzhak Peretz e Menachem Porush, leader della «Yahadut a Torah» (cartello di tre movimenti integralisti) fustigare in un consiglio di saggi i costumi di un Paese che si sta sempre più allontanando dai Sacri Testi. E un attimo dopo una ragazza che sembra quella del Campati, tanto è bionda, sinuosa e ancheggiante: incarna «il potere di cambiare», slogan della sinistra moderata del «Meretz». Ma è nello scambio di messaggi al veleno che si coagula l'autentica contrapposizione. In fondo - pur senza escludere del tutto, in futuro, l'alleanza per un governo di unità nazionale - il vero nodo di queste elezioni sta nello scoprire se il 76enne e durissimo Shamir riuscirà a mantenere il Likud alla guida di una coalizione di destra, o se a settantanni d'età il popolare Rabin, volto de- ciso di un partito progressista, riuscirà ad operare il sorpasso. L'ultimo sondaggio è di ieri: sui 120 seggi del Parlamento, il quotidiano «Hadashot» prevede che il Labour possa conquistarne 38 (contro i 42 che gli venivano accreditati appena un mese fa). Il Likud di Shamir, Arens, Sharon e Levy dovrebbe essere in lieve ripresa: 37 deputati, contro i 35 previsti a maggio. «Meretz» si conferma terzo partito: dovrebbe poter schierare alla Knesset dodici rappresentanti. Seguono con 6 seggi il cartello degli ortodossi appaiato ai nazionalisti di centro dello «Zomet», i sefarditi di «Shas» ed il partito nazionale religioso con cinque, quindi, con quattro, l'estrema destra di «Moledet». Il Labour, con l'alleanza di «Meretz» e dei nazionalisti di centro, raggiungerebbe al massimo 54 voti, quindi non la maggioranza, mentre il Likud potrebbe riproporre l'alleanza con le destre e quei movimenti confessionali che pure in queste ore paiono nuovamente scossi dalle divisioni fra askenaziti e sefarditi. La diagnosi di Amos Oz è impietosa anche a questo proposito: «Non è vero che in Israele l'integralismo sia più forte che altrove: il problema è che la complessità del sistema elettorale e la durezza dello scontro tra falchi e colombe dà ai partiti religiosi il ruolo di arbitri». Fra pochi giorni scopriremo se questo è ancora vero. Ma intanto c'è un dato che merita di essere segnalato. I giornali lo rivelano con una certa enfasi: per la prima volta dall'inizio dell'Intifada, quest'anno in Israele i morti per incidenti stradali superano quelli provocati dalla rivolta. Giuseppe Zaccaria Ultraortodossi ascoltano il rabbino Eliezer Shach, che vuol unificare i partiti religiosi [foto afp]