BOBBIO diritto di difendersi di Vittorio Foa

BOBBIO diritto di difendersi «Panorama» pubblica una lettera del '35 al duce. Parla Vittorio Foa: «Un documento irrilevante» BOBBIO diritto di difendersi ROMA DAL NOSTRO INVIATO Vittorio Foa non ha dubbi: «La lettera che Norberto Bobbio indirizzò a Mussolini nel 1935, per evitare un'ammonizione, è del tutto irrilevante, sia politicamente sia moralmente». Il settimanale Panorama ha pubblicato ieri una lettera che il filosofo scrisse al duce l'8 luglio 1935. Bobbio aveva allora 25 anni ed era docente di filosofia del diritto. In maggio era stato arrestato, quando la polizia aveva colpito il gruppo di intellettuali torinesi legati alla rivista La Cultura, tra i quali c'erano, oltre a lui, Leone Ginzburg, Augusto Monti, Vittorio Foa, Renzo Giua, Cesare Pavese, Carlo Levi, Franco Antonicelli, Massimo Mila, Giulio Einaudi. In luglio a Bobbio venne comunicato che gli sarebbe stata inflitta un'ammonizione, provvedimento amministrativo che restringeva la libertà personale e bloccava la carriera universitaria. Il giovane intellettuale scrisse al duce, ricordando di essere iscritto al Pnf e ai Guf e respingendo le accuse di cospirazione con «Giustizia e libertà». «Sono cresciuto - scrive Bobbio - in un ambiente familiare patriottico e fascista (mio padre, chirurgo primario all'ospedale San Giovanni di questa città, è iscritto al Pnf dal 1923)...» E, più avanti: «In questi ultimi anni, dopo aver conseguito la laurea in legge e in filosofia, mi sono dedicato totalmente agli studi di filosofia del diritto, pubblicando articoli e memorie che mi valsero la libera docenza, studi da cui trassi i fondamenti teorici per la fermezza delle mie opinioni politiche e per la maturità delle mie convinzioni fasciste». Conclude: «Rinnovo le mie scuse a Vostra eccellenza se ho presunto di voler fare giungere sino a lei le mie parole, ma mi ha spinto la certezza che ella nel suo elevato senso di giustizia voglia fare allontanare da me il peso di un'accusa, a cui la mia attività di cittadino e di studioso non può aver dato fondamento, e che contrasta con quel giuramento che io ho prestato con perfetta lealtà». «Orrendo e ridicolo»: così Bobbio, in un'intervista a Panorama, giudica il testo di quella lettera, dichiarando che l'aveva «totalmente dimenticato». Con l'aiuto della famiglia - l'ammonizione fu tolta. La lettera è apparsa in un servizio firmato da Giorgio Fabre. Andrea Monti, direttore del settimanale, scrive che essa nulla toglie ai meriti poi acquisiti da Bobbio. Nell'articolo si citano documenti che riguardano anche Mila, Antonicelli, Einaudi: un verbale degli interrogatori di Mila che avrebbe compromesso Foa, due lettere al duce di Antonicelli, i verbali degli interrogatori di Einaudi (già resi noti dallo storico Giovanni De Luna). Di quel gruppo, Vittorio Foa - coetaneo di Bobbio, deputato alla Costituente per il Partito d'azione e grande protagonista del movimento sindacale, una lunga milizia politica conclusa, nella scorsa legislatura, come senatore della Sinistra indipendente - pagò più duramente: oltre 8 anni in carcere. Come scrive nel libro di memorie II Cavallo e la Torre, in carcere pensava agli amici liberi: «Ricordavo i distintivi fascisti all'occhiello delle loro giacche, ma li ricordavo solo per affermarne l'assoluta imlevanza dal punto di vista morale: il distintivo indicava solo un'adesione formale come mezzo per facilitare lo studio e il lavoro (...). Mai mi sono sentito superiore a loro per essere in carcere». Come vedeva Bobbio? Quali erano i vostri rapporti? Negli anni dell'università io non l'ho frequentato. Allora lavoravo o facevo il militare. Ma ci siamo laureati entrambi nel luglio del 1931. Nel quadro di laurea, oltre alla sua e alla mia, ci sono anche le fotografie di Alessandro Galante Garrone, Giorgio Agosti ed Egidio Ortona, futuro ambasciatore a Washington. Invece, fra il '31 e il '35, Bobbio e io ci siamo frequentati molto. Lo ricordo nettamente come un antifascista, sebbene non impegnato in attività cospirative, perché era preso dallo studio. Ma i suoi maestri erano Francesco Ruffini e Gioele Solari, Luigi Einaudi e Pasquale Jannaccone. I suoi amici Leone Ginzburg e Franco Antonicelli. Avevamo comuni amicizie mondane. Per molti mesi ci trovavamo una volta la settimana a giocare ai tarocchi in una bottiglieria di via San Massimo, l'oste si chiamava Giuseppe. Con noi giocavano Franco Antonicelli e Carlo Zini, accesi antifascisti. Con Norberto, che chiamavamo e chiamiamo Bindi, non si parlava di cospirazione ma sempre e molto di politica. Durante la sua prigionia, siete rimasti in contatto? Non potevo avere alcun rapporto, neanche una cartolina, se non con genitori e fratelli. Ma Bobbio mi fu di serio aiuto nel consigliarmi letture giuridiche o filosofiche. Quando tornava a Torino, andava dai miei genitori che mi trasmettevano per lettera i suoi consigli. A lui debbo la conoscenza di Kelsen e di Husserl e poi anche la lettura, per me assai importante, di Gurwich sui diritti sociali. Nella lettera Bobbio si presentava come un buon fascista. Lei che ne pensa? Non facciamo confusioni. Una cosa era essere fascisti, altra cosa essere iscritti al fascio. Molti miei amici, e anche mio fratello, si erano iscritti al fascio pur non essendo fascisti, spesso essendo francamente antifascisti. La tessera del fascio era in molti casi una condizione per poter lavorare in modo adeguato alle proprie capacità, a volte per poter semplicemente lavorare. Ma come giudica la lettera? Dico subito che quella lettera è da ogni punto di vista, politico o morale, assolutamente irrilevante. L'ammonizione era una violenza nei suoi confronti, era una misura amministrativa che poneva limiti alla libertà personale e alla capacità di viaggiare e lavorare. Era una violenza dalla quale Bobbio aveva il diritto di difendersi: io mi sento di parlare di legittima difesa. Si difendeva com'era suo diritto, con accortezza, estendendo al presente i suoi antichi sentimenti fascisti. Quella lettera va letta come un ricorso nei confronti di un provvedimento amministrativo. Perché rivolgersi direttamente al duce, e non al questore, al prefetto? Ma è chiaro. Bobbio rivendicava una decisione a lui favorevole e la rivendicava da Mussolini, che era di fatto quello che decideva queste cose. Può dispiacere il linguaggio, del resto moderato rispetto alle infinite manifestazioni di piaggeria nei confronti del duce. Ma quello era il linguaggio riverente d'uso. Si usava anche col capufficio. E come giudica, allora, la pubblicazione della lettera? Ripeto che la lettera è totalmente irrilevante, ma l'averla usata, messa in grande e isolata evidenza, è una forma di denigrazione nei confronti di un uomo la cui vita, tutta la vita, merita ammirazione e rispetto. E' un'aggressione, una violenza che ci offende. Da un lato c'è un singolo episodio che solo con qualche forzatura può essere presentato come un cedimento, dall'altro c'è una vita tutta spesa, ogni giorno e ogni ora, per la difesa e la promozione della libertà con una sensibilità acuta per ogni aspirazione alla giustizia: mia vita d'educazione e d'esempio. Per quali ragioni si denigrerebbe Bobbio? Io non dispongo della fantasia sufficiente per fare delle congetture. Ma sono abituato alle «clamorose rivelazioni» contro uomini e vicende impegnati nella difesa della democrazia, quando l'opinione pubblica è turbata da scandali, ruberie, dalla sfacciata contiguità fra la politica e gli affari, che spesso sono affari criminali. Sarebbero dunque rivelazioni strumentali? Io faccio di queste «clamorose rivelazioni» una questione di ve- rità. Mi interessa meno la domanda: a chi giovano? E' fin troppo evidente l'ondata che tende a cancellare o infangare la memoria della Resistenza, di quello che l'ha preparata e di quello che ne è seguito, di cancellare i valori fondativi della nostra democrazia. Però si tratta di documenti storici... In realtà, al posto della ricerca storica è venuto avanti l'impiego strumentale della storia, l'uso della storia come arma di politica contingente. La storia come manganello, n giornalista è tenuto a far conoscere i documenti, poi i lettori giudicheranno, o no? Ma la verità non è solo evidenza di un oggetto, è anche e prima di tutto rispetto delle sue proporzioni, dei rapporti nel tempo e nello spazio. E' in questione, allora, il revisionismo storiografico? Il revisionismo storiografico è legittimo, il mondo non può stare fermo nella percezione di sé stesso. Ma il confine fra ricerca della verità e sua cancellazione va rispettato. Quando lo ha violato, Ù revisionismo ci ha dato paurosi esempi di menzogna sistematica: penso ai campi di sterminio. Il giudizio è il medesimo per le rivelazioni su Mila, Einaudi, Antonicelli? Non è verità ma falsificazione dare della personalità di Massimo Mila, della ricchezza straordinaria della sua passione politica, critica e alpinistica una immagine deformata da un singolo interrogatorio di polizia. Come ignorare il quadro della pressione poliziesca e delle sue tecniche repressive, che non sono fatte solo di violenza fisica. Con Mila ho passato anni e anni in una cella di Regina Coeli e mai, nemmeno per un attimo, ho pensato che qualche parola in un interrogatorio di polizia potesse offuscare l'immagine impegnata di quell'uomo. Più pesante di quella fisica c'era la violenza morale dello stesso interrogatorio di polizia, della ritualità del tribunale speciale i cui giudici erano «seniori», cioè colonnelli della milizia fascista. E ciò che dico per Mila vale anche per Einaudi. Chi tira fuori i documenti ne fa una questione di intransigenza. Fa pena sentir dare lezioni di intransigenza da chi vive in condizioni radicalmente diverse. Sul solco segnato da Gobetti e da Salvemini penso all'intransigenza come a un valore alto. Ma lo è quando è richiesta a sé stessi. Se è richiesta agli altri è un abuso. C'è chi non ha mai scritto lettere al duce, come lei... Ma io decisi una scelta di rottura completa con la vita che facevo. Questo lo dico senza nessuna presunzione di superiorità. E gli accademici che si rifiutarono di giurare al fascismo? Si è trattato di pochissime persone, che in qualche modo avevano concluso il loro percorso e che desideravano sottolineare fortemente l'autonomia di ricerca che caratterizzava la loro vita. Bobbio, invece, non decise allora di testimoniare pubblicamente la sua fede, ma di coltivarla nella forma del lavoro, di fare politica con la ricerca. L'immagine di Bobbio è quella di un maestro, lei stesso l'ha ricordato. Può uscire scalfita dall'episodio? Ci sono dei casi in cui si costruisce su una persona un'immagine di maestro infallibile e allora qualsiasi cosa può apparire un cedimento. Anche per Bobbio è stata creata un'immagine del genere. Non è stato lui a volerlo, l'hanno costruita gli altri. Ma quello che Bobbio rappresenta realmente, non c'è niente che può scalfirlo. Quando io uscii dal carcere, alla fine dell'agosto del 1943, la prima persona che venne a trovarmi, sulla collina torinese dove i miei erano sfollati, fu lui, fu Bindi. E mi parlò del Partito d'azione. Alberto Papuzzi «Quando uscii dal carcere, nel '43 fu proprio lui la prima persona che venne a trovarmi: e mi parlò del Partito d'Azione» «Questa è aggressione. Tutta la sua vita merita ammirazione e rispetto» Vittorio Foa, nell'immagine grande, e sopra Leone Ginzburg. Sotto, Norberto Bobbio Sopra, Franco Antonicelli e Massimo Mila in una foto del '51. Sotto, a sinistra Giulio Einaudi, a destra Alessandro Galante Garrone: la polizia si accani contro il gruppo della rivista «La Cultura»

Luoghi citati: Torino, Washington