Ma già allora insegnava a essere liberi di Alessandro Galante Garrone

Ma già allora insegnava a essere liberi Galante Garrone ricorda: in quel periodo il mio amico non faceva ancora parte di «Gielle» Ma già allora insegnava a essere liberi ~jnT\ UANDO m'imbatto in 11 qualcuno che, sotto le 11 mentite spoglie dello stu1 I dioso del passato, sostieY I ne con sussiego di «portare elementi a una revisione storica dell'antifascismo», mi verrebbe da ridere, se non scorgessi, sotto sotto, chi sa quale intento mistificatorio, o quale abissale ignoranza della realtà. Forse Giorgio Fabre, l'autore dell'articolo di Panorama, è un giovane che non ha conosciuto gli anni tristi, ridicoli e vergognosi del fascismo. Ascolti la sincera testimonianza di un vecchio che quei tempi ha vissuto (e sofferto). La prima circostanza, inconfutabile, è che nel 1935 Norberto Bobbio era del tutto estraneo all'attività clandestina dei giovani torinesi che facevano capo al movimento di Giustizia e Libertà, diretto a Parigi da Carlo Rosselli, fiancheggiato dal torinese Aldo Garosci. Fino a poco prima degli arresti, causati dall'ignobile delazione di Pitigrilli, io avevo frequentato a Torino Vittorio Foa, splendido animatore dell'antifascismo torinese, passato in prima fila dopo l'arre¬ sto di Leone Ginzburg (che era stato il capo e l'ispiratore di tutti noi, da vicino a da lontano). Nei miei frequenti colloqui con Foa (e restano in me mdimenticabili i serali incontri con lui, Carlo Zini e Alberto Levi), non si parlò mai di Bobbio, se non come di un compagno di studi e un amico. Io allora ebbi poche occasioni di parlargli. Non si compromise mai con la segreta organizzazione dei Gielle. Ma in quei rari incontri (e ricordo in particolare una lunga conversazione che ebbi con lui all'Istituto Giuridico, nella quale scoprimmo un idem sentire), mi convinsi che non ci potevano essere dubbi sull'ideale scelta di campo da lui fatta. Egli non aveva respirato l'antifascismo nella sua famiglia borghese, pronta a accettare il regime che pretendeva di identificarsi con la nazione, vaticinandone la futura grandezza. Si era piegato a accettare come tanti l'ordine costituito, passivamente; si mescolava, negli studi e negli svaghi, ai compagni di scuola: bravi ragazzi, e poco importava se fossero fascisti. E poi - diciamo la verità - specialmente a certi livelli sociali il fascismo non era oppressivo e persecutorio come il nazismo che lo avrebbe seguito: «il gatto e la tigre», secondo l'immagine di G. A. Borgese. Il nostro era un dispotismo temperato dalla generale inosservanza delle leggi e dalla scettica indifferenza di tanti italiani. Ma nelle scelte serie di campo, sul piano culturale e morale, Bobbio non ebbe mai dubbi. I suoi maestri prediletti - maestri anche di vita civile - furono Ruffini, Solari, Martinetti. Ne è prova la sua collaborazione alla rinnovata einaudiana Cultura: non una rivista sovversiva, di accenti rivoluzionari, e neppure di dichiarata sinistra; ma legata per tradizione alla figura di De Louis, e poi di Salvatorelli; non distante dalla Critica di Croce. Questa, solo questa era l'aria respirata da Bobbio allora, con il suo pensiero e i suoi scritti: non quella dei segreti conciliaboli di Gielle. Il suo coinvolgimento - del 1935 - nell'attività cospiratoria di Rosselli e di Foa era inesistente. La sua lettera dunque dell'8 luglio 1935, ridicola fin che si vuole nei toni, ribadiva nella sostanza la sua effettiva e totale estraneità ai fatti contestatigli. Certo, oggi la sua lettura può apparire sgradevole (a lui stesso, prima che ad altri), come lo è ogni insincera protesta di fedeltà al tiranno persecutore, per sottrarsi alle sue grinfie, in ogni tempo e in ogni Paese. Ma si trattava, in fin dei conti, di un espediente difensivo, verosimilmente suggeritogli da qualche avvocato, per sottrarsi a una misura di sicurezza - r«ammonizione» - foriera di gravi pregiudizi per lui e il suo avvenire di docente, e, nel fatto, destituita di qualsiasi fondamento. Certo, sarebbe stato più bello e più eroico gridare in faccia al dittatore e ai suoi accoliti il proprio disgusto. Altri lo hanno fatto. Ma si trattava pur sempre di un legittimo atto di difesa. Se lo spazio me lo consen¬ tisse, mi sarebbe facile citare molti esempi, dal '700 al Risorgimento e ai nostri tempi, di questi accorgimenti defensionali per preservare o ricuperare la propria libertà di fronte al tiranno. La sola verità che conti è che Norberto Bobbio, nei suoi scritti e nel suo insegnamento, allora e poi, non incensò mai, né prese sul serio, e neppure fece parola, in senso politico, del fascismo. La sua fu anzi una continua lezione di libero pensiero, e di dignità della cultura: pertanto di antifascismo. Così fecero Concetto Marchesi, Adolfo Omodeo, Piero Calamandrei, Luigi Einaudi, che pure, come lui, per restare in cattedra a professare i loro ideali di cultura incontaminata, si rassegnarono a firmare un odioso giuramento di fedeltà al fascismo. Proprio per questo, Bobbio fu imprigionato nel Veneto durante i tenibili mesi della repubblica di Salò; per questo, alcuni meravigliosi giovani, che non ne avevano dimenticato l'insegnamento, salirono in montagna e morirono da partigiani. Alessandro Galante Garrone Notizia o cattiva azione? Ne discutono storici, giornalisti e filosofi A PAGINA 16

Luoghi citati: Parigi, Salò, Torino, Veneto