«Io, terrore dei mercanti d'arte»

«Io, terrore dei mercanti d'arte» Esce un'autobiografia-bomba: un tuffo al cuore per collezionisti ed esperti «Io, terrore dei mercanti d'arte» Scandalo a landra-, il re dei falsari si confessa "TvlIRCA trent'anni fa un fi ' giovane artista inglese di I nome Eric Hebborn prese 1 i appuntamento con il più I prestigioso degli antiquari di Londra: Colnaghi & Co., casa fondata nel 1760, al numero 14 di Old Bond Street. Disse di avere un disegno da vendere che gli pareva di Degas - ma non sapeva bene, non ne era sicuro - e fu accolto con l'affettuosa cortesia che contraddistingue un tempio di solidità come Colnaghi. «Mi dispiace averla fatta attendere» si scusò James Byam Shaw, il più anziano e autorevole esperto d'arte della casa. «Vogliamo dare un' occhiata al suo Degas al piano di sopra?». Ma gli bastò uno sguardo per capire che non si trattava di un Degas, anzi, pareva un Corot. Peccato che i suoi disegni fossero i più falsificati sul mercato. Occorrevano vari consulti e prove scientifiche per autenticare un'opera così potenzialmente pericolosa. Nel giro di tre settimane, tuttavia, il «Corot» superò tutte le prove, e Hebborn ricevette il suo grazioso assegno. Che non si trattasse di un Degas era del resto il primo a saperlo, per la semplice ragione che quel ritratto di bambino lo aveva fatto lui, interpretando un olio di Corot che si trova al Louvre. Dove invece sia ora questo suo «Corot» non si sa: ma Hebborn ci tiene a precisare che non figurava nella lista dei falsi da lui venduti a Colnaghi (e a suo dire anche a Sotheby's e Christie's) smascherati nel '78 ed educatamente rifusi ai clienti, Sarà un colpo al cuore per chi lo riconoscerà adesso. Perché figura in ottima compagnia (con Piranesi, Mantegna, Pontormo, Rubens, Bruegel e quanti altri) tra le illustrazioni di Drawn to Trouble, il libro uscito dall'inglese Mainstream Publishing, in cui il più grande (fino a prova contraria) falsario di disegni del mondo si confessa. E con gioia ci racconta del suo Bruegel venduto al Metropolitan di New York, dello Sperandio andato alla National Gallery di Washington, del Van Dyck del British Museum e di tutti gli altri falsi tuttora custoditi da musei e collezioni private, incluso, a suo dire, un «Pontormo» che in un'asta a Milano nell'85, da Salamon Augustoni e Algranti, avrebbe raggiùnto la bella cifra di 138 milioni. Non c'è che dire, è tutto molto imbarazzante. Anche perché questo irsuto signore, figlio di un droghiere di South Kensington, dice di avere immesso sul mercato almeno 500 falsi dal I960 al '78, e altri 500 dopo lo scandalo, quando le grandi case lo evitavano come un appestato, ma piccoli mercanti continuarono a servirsene usando nomi falsi: a Londra, e soprattutto a Roma. Come mai allora il reo confesso Hebborn è ancora a piede libero? E' una storia sorprendente che s'inizia quando diede fuoco alla scuola d'arte che frequentava da ragazzino («Il direttore disse a mia madre, se ricordo bene, che sarebbe stato meglio strangolarmi nella culla»), proseguendo attraverso gli anni del riformatorio, e quelli di studio nelle accademie di mezza Inghilterra a spese della pubblica assistenza, finché il giovane artista che lavora alla maniera classica approda alla celebre Royal Academy di Londra. Eric Hebborn non si dichiara affatto un artista incompreso, animato da sete di rivincita verso il mondo che lo avrebbe escluso, ma il più compreso degli artisti che reputano il modernismo «una virtù transitoria». Stanco di lavare i piatti e di fare il baby sitter per pagare la pigione a un affittacamere strozzino, iniziò vendendogli in buona fede un suo disegno, che poi vide in una galleria del centro attribuito a Sickert. Non solo: l'affittacamere pretendeva di farsi una collezione a buon mercato, e gli chiese di trovare dei capolavori nei mercatini. Non c'era neanche bisogno di andarci: il giovane lo truffò con piacere, tanto per restituirgli la truffa del Sickeit. La carta antica non mancava, e un vecchio rigattiere di Cecil Court era lieto di fornirgliela. Intanto Hebborn vinceva nel '59 una borsa di studio di due anni a Roma, che raggiunse a piedi, dormendo all'addiaccio e studiando i musei delle Fiandre, della Germania, di Venezia e di Firenze. Fu in omaggio all'Italia della dolce vita, così generosa nell'accoglierlo, che Hebborn, tornato nel '62 a Londra, chiamò la sua bottega di disegni e stampe antichi Pannini Galleries. E fu in Italia che di fronte a un fiasco di Frascati strinse la più importante amicizia della sua vita, con l'aristocratico ed erudito sovrintendente della Collezione della Regina, sir Anthony Blunt, a cui quell'amicizia sarebbe costata un giorno un grave imbarazzo (sempre inferiore a quello del governo inglese, quando scoprì che Blunt era il famoso «quarto uomo» del Kgb). Sarà anche un tipo volgare, questo Hebborn che non perde occasione per cantare i piaceri del cattivo vino e del sesso con giovani «caravaggeschi» tra i cespugli del Pincio, ma certamente è astuto. Piazza nel '63 due «Augustus John» da Christie's, poi il «Corot» da Colnaghi, e con altri due «John» («non ricordo più a chi li abbia venduti... ma non erano quelli che su mio mandato Sotheby's ha messo all'asta il 14 dicembre del '66») finanzia il trasloco della Pannini Galleries a Roma, in piazza Paganica. Dove resta per molti anni, ricevendo solo su appuntamento («sarebbe stato imbarazzante essere scoperto proprio mentre facevo un falso») mezzo establishment del mondo dell'arte inglese e americano, che si gode i suoi gin and tonic e i suoi tè ghiacciati, mentre studia il catalogo della galleria: Whistler, scuola di Mantegna, Mola, Bartolozzi, Tempesta, Reynolds. Nessuna copia di disegni già esistenti, ma, se ne fa un vanto Hebborn, solo interpretazioni originali. Tuttavia a questo strano personaggio non basta raccontare le sue frodi intelligenti, vorrebbe anche convincerci della sua moralità: in fondo, dice, mostrava agli esperti solo disegni non firmati, e lasciava che fossero loro ad attribuirli a questo o quel maestro, gustandosi le pompose didascalie che avrebbero poi accompagnato i suoi «Bartolomeo Pinelli» e «Bruegel» in grandi mostre romane, da Villa Medici alle gallerie private. Ma se il suo libro può ragionevolmente irritare per il compiacimento che l'autore mette nella sua ribalderia, è anche vero che quando parla del suo «mestiere» Hebborn è un incantatore, un alchimista di colle e pigmenti: a lui sta a cuore dimostrare che gli studiosi o i grandi esperti d'arte incapaci di usare il pennello o la matita «sono come bibliotecari che non sanno leggere e scrivere... sono tagliati fuori dalla vera conoscenza dell'arte». Dunque il suo scopo è chiaro: una volta smascherato, vuole anche lui smascherare. Non i grandi studiosi che ha ammirato e truffato, come Blunt, James Byam Shaw e Christopher White di Colnaghi, o l'ex collaboratrice di Bernard Berenson Luisa Vertova, che nel '74 comprò da lui un Fra Bartolomeo, un Castiglione e un Luca Cambiaso. Loro, dice, erano in buona fede, essendo non tutti ma molti dei falsi di Hebborn «perfetti» (checché ne dica, insiste, la voce «Falsificazione» della nostra Garzantina, secondo cui oggi esisterebbero prove tecniche infallibili). Il suo vero bersaglio sono i mercanti. «La differenza tra un gentiluomo e un mercante d'arte è semplicemente questa: l'uno esclude l'altro. Non si può entrare nella melma e il letame del mercato dell'arte e uscirne con le mani pulite. Il conte Antoin Seilern, aristocratico e grande collezionista, lo sapeva istintivamente e non faceva entrare nella sua casa nessun mercante di quadri, per quanto importante, se non per la porta di servizio». A sostegno della sua tesi, Hebborn porta il fatto che quando, nel '78, la Morgan Library di New York e la National Gallery di Washington si accorsero con dieci anni di ritardo di avere comprato da Colnaghi un «Francesco del Cossa» e uno «Sperandio» stranamente somiglianti, Colnaghi pubblicò una dichiarazione sul Times in cui richiedeva indietro ai suoi clienti certi disegni venduti alla stessa epoca, perché sospetti. Ma Hebborn di¬ ce che si accontentarono di rintracciare in tutto non più di 25 falsi, sui 500 che aveva rifilato ai più importanti mercanti di Londra. I quali non fecero il nome del falsario, né lo denunciarono, perché, dice lui, «non volevano fare affondare la barca». Ss fosse venuta fuori la verità, non si sarebbe salvato nessuno. Quanto a lui, dice di essersi da poco ritirato, per scrivere un saggio sul disegno. Competente, non c'è dubbio, per come sa ragionare sulla velocità del tratto con cui imitare l'artista, il suo stato d'animo, i suoi impercettibili manierismi. Non ultimo il modo di porgere un falso: sempre con modestia e con astuzia, come quando mostrò all'arcigno mercante inglese Hans Calmann un bel Poussin di giornata. «Non credo che sarai interessato, Hans, ma avrei portato un disegno. Anthony (Blunt) lo ha già visto, ma non gli pare convincente». Proprio l'occhio esperto di Anthony Blunt aveva in passato scovato un Poussin tra i disegni non firmati di quello stesso mercante, e glielo aveva portato via per poche sterline. Calmann si chinò sull'opera del falsario. «Ma è perfetto!!!» esclamò assaporando la rivincita. «Nessuno all'infuori di Poussin potrebbe averlo fatto». E mentre la penna già correva sull'assegno, sospirò con aria furba: «Povero Blunt. Una creatura così gentile... ma su Poussin?... Mio caro Eric, ricordati: mai sottovalutare la stupidità degli altri». Livia Manera «Dal British Museum a Christie's coni miei disegni ho bidonato mezzo mondo» Truffò anche un esperto della regina e spia del Kgb Qui di fianco, un ritratto (eseguito dall'amicofalsario) di sir Anthony Blunt, esperto della Collezione della Regina. Nella foto a sinistra, ancora Blunt, e in quella grande Eric Hebborn: sostiene di aver immesso sul mercato, dal I960, almeno mille falsi Sopra, uno dei falsi Corot. In alto, autoritratto di Hebborn del 1984