Rebora poesia vestita di fede

Rebora, poesia vestita di fede Una forte personalità del '900 Rebora, poesia vestita di fede m RENTACINQUE anni ' l'fa, nel giorno da lui sospiri rato della «Comunione •| dei Santi», il primo noJJvembre del 1957 Clemente Rebora moriva a Stresa in una cella del convento rosminiano. Dopo le folgoranti apparizioni dei Frammenti lirici nel 1913 e dei Canti anonimi nel 1922 il poeta aveva taciuto, già avvolto in una crisi di maturazione religiosa che lo avrebbe portato nel 1930 all'Istituto della Carità, quindi al sacerdozio. La ristampa stentata delle Poesie presso Vallecchi nel 1947 sembrò presagio di ripresa di quel canto. Vanni Scheiwiller spiò attraverso ogni pertugio e raccolse ogni fremito, ogni bisbiglio del poeta: ne trasse nel 1956 i Canti dell'infermità, fra cui grandeggia quel Curriculum vitae eh e l'equivalente moderno, in trecento versi, delle sterminate autobiografie concrete e spirituali dei romantici inglesi. Ma la voce di Rebora si sciolse piuttosto nell'anelito pio, nella giaculatoria devota, quasi tornato bambino; eppure versi ancora inconfondibili, ricchissimi di problemi fonici e metrici. Scrive: «Lungi da me la scappatoia dell'arte / per fuggir la stretta via che salva», ma il vigore della sua ispirazione è sempre quello del fuoco lirico che ne divorò tutta l'esistenza e che lo fa accostare tranquillamente a Jacopone, lettura e studio certi di Rebora fin dagli anni lontani in cui dirigeva la collana dei Libretti di Viper l'editore «Maria Clemente Rebota Paravia lavava / Il Bimbo piangeva / Dal freddo che aveva. / - Sta' quieto mio figlio, / Che adesso ti piglio! / Del latte t'ho dato, / Del pan non ce n'è. - / La neve dai monti / Cadeva dal cielo: / Maria col velo / Copriva Gesù». Leggere il Rebora religioso e mistico fa insorgere continuamente problemi, interrogativi, richiami, quanto e forse ancor più del Rebora laico e profano. E innanzi tutto il problema della sua stessa cultura cattolica, su quelli che divennero i suoi autori. Cresciuto in una famiglia cristiana ma laica, da cui fu portato al battesimo e nulla più, il suo nutrimento furono gli scrittori risorgimentali e i pensatori mazziniani; i suoi poeti furono Dante, Leopardi, Pascoli. Bravo pianista, di Leopardi studiò l'estetica musicale nello Zibaldone (il saggio, Per un Leopardi mal noto, che scrisse nel 1910, riappare adesso nei Libri Scheiwiller a cura di Laura Barile); militò e collaborò alla Voce di Prezzoline Ma già si spostava sui mistici, di tutte le religioni. Lesse e persino scrisse a Gandhi sulla fine del 1924; incontrò a Milano e ammirò Tagore, progettando di seguirlo nel Bengala; tradusse e commentò testi orientali, per non dire della sua devozione ai russi, primo fra tutti a Tolstoi. Ma dopo? Silenzio quasi assoluto anche su questo, lungo tutto l'epistolario. All'atto di mutar vita, più che mai assorto e sempre più avverso o lontano dal mondo, inorridito della sua stessa opera poetica, Rebora fece «scempio» di tutte le sue carte, vendendole a peso ad uno strosce. Ma sembra aver fatto piazza pulita anche dei suoi libri e delle sue letture. Nessuna traccia dei grandi, ovvi francesi del tempo, di Gilson, di Daniel-Rops, di Mauriac, nemmeno di Bernanos, tanto meno di Simone Weil. Se mai, ancora qualche citazione di Jacopone, di Maddalena de' Paz¬ a zi; accenni a sue rielaborazioni del Pellico! La verità è che Rebora si considerava ormai «un defunto, morto e seppellito», e tanto più per le lettere. Formidabile creatore di parole, di suoni, di metri, sollecitatore del discorso fino alle sue estreme resistenze, Rebora fa ora poesia solo con nulla, coi vocaboli ossessivamente elementari del fanciullo ch'è sempre rimasto nel suo fondo. Eppure c'è una strenua continuità nel lavoro della fucina linguistica reboriana, dominata dovunque, dal principio alla fine, da una liricità ardente, dall'asprezza della sua tastiera, in cui si effondono instancabilmente la solitudine e il bisogno di dare e di ricevere amore. Forse si rivolse a Dio quando ebbe esaurito tutte le speranze sull'uomo. L'edizione garzantiana di tutto l'arco delle Poesie nell'88 ha così riproposto all'attenzione di molti, in tutta la sua dimensione, questa personalità misteriosa, e alla critica la ricchezza altrettanto problematica di una delle opere fondamentali storicamente e più attuali concettualmente del Novecento italiano; un'esperienza in ogni caso rarissima nelle nostre lettere, dov'è così rara l'autentica ispirazione religiosa. E quella di Rebora, come ora si viene scoprendo, fu tale sin dall'inizio. Persino nel suo epistolario, anch'esso uno dei più grandi del nostro secolo, se solo si mutasse qualche elemento della terminologia, tutto si equivarrebbe: sempre uno sconfinato e riversato amore per gli amici, il disdegno per le circostanze e la pienezza quasi assoluta di solo pensiero, di solo sentimento, di abiezione per sé e di sollecitudine per gli altri; obbedienza e sottomissione a qualcuno e a qualcosa ch'era fuori di lui, per cui si trascinò in oscure scuole serali di Milano e provincia, scese nel carname della guerra vivendone vicende e subendone impressioni prevedibili ma incancellabili. Due convegni hanno avuto ampia partecipazione: lo scorso autunno a Rovereto, dove Rebora esercitò per anni il suo ministero sacerdotale, e recentemente alla Sacra di San Michele, all'imbocco della Valle di Susa, dov'egli sostava in un ritiro che si colmava di «fioretti» francescani per il ripiombare, di chi tanto aveva conosciuto di tutte le strade del mondo, in un'ingenuità disarmante, in una religiosità ridotta all'estremo, allo stremo. Così da un lato si amplia il discorso iniziato sulle sue liriche al loro primo apparire da Boine, da Serra, da Cecchi; dall'altro si fruga nei forzieri degli archivi, che offrono e ancor più promettono materiale inedito, spunti poetici e lettere, meditazioni e annotazioni su testi letterari. Roberto Cicala nel corso dei due convegni ha prodotto esempi straordinari di come Rebora si aggrappasse ai testi, nel caso VOdissea e la Divina commedia. Lottando con gli altri commentatori, dall'esordio del canto trentatreesimo del Paradiso, con l'inno alla Madonna, Rebora ricavava assonanze inaudite, compiva passaggi vertiginosi; dal canto infernale di Ulisse traeva la prova dell'inanità e della perversione della ragione umana, questo strumento del conoscere che da giovane l'aveva esaltato e tormentato, per poi lasciarlo esausto sull'orlo della disperazione. Cario Carena Clemente Rebora

Luoghi citati: Milano, Rovereto, Stresa, Susa