I'incubo delle elezioni anticipate
Barbuto come Sandokan e senza l'arrembaggio GQRIÀ IN CONTROLUCE Barbuto come Sandokan e senza l'arrembaggio AROMA H, la barba! Oppure, a seconda dei casi: ahi, la barba! (di Goria). E lì per forza si doveva finire, su quei peli che, sempre più bianchi per la verità, adornano le guance del ministro Sandokan. Nel 1987 perfino festeggiato, in un party elettorale, da un gruppo di groovies, o fans di sesso femminile, che avevano pensato bene di autodefinirsi «tigrotte». Barba da Sandokan, dunque. Ma anche barba risorgimentale, stile vecchio Piemonte. Gliela rinfacciarono quando era presidente del Consiglio e di fronte alle fosche previsioni di un senatore msi, rispose facendo gli scongiuri con le doppie corna. E Craxi, scherzando: «Diffido degli uomini con la barba». Oppure, sempre per celebrare questa piccola ma fulminante leggenda fisiognomica di Palazzo rinfrescata ieri da De Mita, «una barbetta brigantesca accuratamente incolta», secondo Montanelli. Per con-* tinuare con le famose vignette di* Forattini che del presidente offrivano solo la barba e i baffi, e «lo sguardo del lettore passava indisturbato come attraverso un fantasma» (Vattimo). Fino alla poesia scritta dall'onorevole Melimi dopo le dimissioni (1988): «Di Goria la barba è quella/ che portò Quintino Sella./ E' però, questa, in sostanza/ la lor sola somiglianza...». Insomma, riepilogando in tema di peluria: pirata del Borneo, statista dell'Ottocento, masnadiero, spettro. La vasta gamma delle immagini evocative suscitate dal barbuto Goria fa sorgere il sospetto che qualcosa non torni. E forse sono l'indeterminatezza, l'indecisione, l'intermittenza a pesare sul personaggio. Che pure, prima di quei suoi 200 giorni a Palazzo Chigi, era una promessa, anzi «la» promessa della de. Cosa avrebbe voluto fare, Goria, una volta fuori dalla presidenza del Consiglio; come si sarebbe potuto comportare con i compagni di partito che prima l'avevano innalzato e 1987 poi (bruscamente) atterrato l'hanno capito davvero in pochi. E probabilmente, almeno dai risultati, neanche lui. Cominciava col rifiutare la commissione Bilancio di Montecitorio e un'eventuale poltrona di ministro. Nobile scelta. Diceva: «Ci sono tante cose da fare, fuori. C'è l'esigenza molto forte di animare il partito». Ottimo. «Ho chiesto al segretario di potermi occupare di Utopia». Ma certo: non aspettavano altro, quei vecchi marpioni di piazza del Gesù. Poi, quasi improvvisamente, sembrava candidarsi alla segreteria. Quindi smentiva: «La mia iniziativa al servizio del partito non ha questo approdo». Ma aggiungeva: «Farei ridere se dicessi che non sarò mai il numero 1 della de». E poi quella storia permanente (e anche un po' iettatoria per certe orecchie addestrate) della classe dirigente del Duemila. Non era un modo per ricordare a De Mita, Forlani, Andreotti, Gava che lui, il «giovane» Goria, a quel punto sarebbe stato vivo e vegeto e loro morti e sepolti? Ma intanto, tra il 1989 e il 1990, si scioglieva anche l'embrione di corrente «goriacea». E là promessa si riduceva tutta in convegni, produzione di «newsletter», questionari preelettorali (con domande che andavano dalle bombolette spray alla riapertura delle case di tolleranza). E successi elettorali europei, tenui conati di rivolta anti-De Mita, studi sul Terzo Mondo, difese e ceffoni (dall'ex msi Staiti) per via della complicatissima vicenda della Cassa di Risparmio di Asti. E poi: la poltrona dell'Agricoltura e quella dell'associazione «per la qualità della vita». Una pseudo alleanza generazionale con Scotti, l'ennesima autocandidatura e il Midas interruptus dell'ultimo Consiglio nazionale. Con i tempi della politica il 2000 non è mica così vicino. In barba a Sandokan o al fantasma di Forattini. Filippo Ceccarelli Bili Goria nel look del 1987
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