Levi: «L'Indipendente palestra di volgarità» di Ugo Bertone

Levi: «L'Indipendente palestra di volgarità» Trasformismo, linea politica selvaggia, falsi scoop e altre accuse. Confronto tra fondatore e nuovo direttore Levi: «L'Indipendente palestra di volgarità» D— MILANO I suo è rimasto solo il motto, ben disegnato sopra la testata: «Rerum I cognoscere causas», dotta citazione da Virgilio già scolpita sul frontone della London School of Economics. Il resto? «No, il giornale di oggi non ha nulla a che fare con quello di prima. Era un quotidiano giovano e fragile, pronto a conquistarsi una nicchia libera nella fascia alta dei lettori». E adesso? «Basta guardarlo. Titolo di prima pagina: "Arridatece er piccone". Oppure: "Il cetriolo non s'ammoscia", a proposito di ricerche in biotecnologia. Cerca di cavalcare l'onda della protesta, cerca il sostegno della Lega con l'illusione di fare il pieno di un serbatoio antipartito». Questione di vendite... «Sarà, ma a tre mesi dalla mia uscita le vendite sono sempre lì, sulle 30 mila copie. Eppure ci sono state le elezioni, il Presidente della Repubblica, l'inchiesta sulle tangenti...». No, non è la solita bega tra giornalisti. Ricardo Franco Levi, 43 anni, cinque figli («debbo e voglio continuare a lavorare») non è del resto un direttore qualsiasi. Sua è stata l'idea dell'Indipendente. Sua la scelta di impegnare quattrini, prestigio e tutte le energie in un'impresa medita, difficile, ad alto rischio. Quel giornale è nato il 14 novembre del 1991. E', in pratica, defunto il 14 febbraio, San Valentino. Da allora, sulla tolda dell'Indipendente regna Vittorio Feltri, ex direttore dell'Europeo. E la rotta muta di 180 gradi: giornale popolare, grintoso, alla ricerca dei grandi effetti, adesso. Voce distaccata, forse troppo, dicono i critici, prima. No, non è un semplice cambio di direzione. Gli azionisti, tutti nomi buoni dell'imprenditoria del Nord, hanno cambiato cavallo, obiettivi, linea politica dopo soli tre mesi di esperienza. «All'assemblea di maggio - dice Levi - ho incrociato un piccolo azionista calabrese. "Mi vergogno, mi ribolle il sangue", mi ha detto, "per aver finanziato un giornale così, sdraiato sulle posizioni del-, la Lega. Mi avevano promesso j un'altra cosa"». No, non è una parabola comune. Merita farla raccontare da Ricardo Franco Levi, nipote di Arrigo, giornalista, esperto di economia con un passato al Sole ; 24 Ore e al Corriere della Sera. E' la prima volta che si lascia andare, lui, forse il solo direttore (per! giunta azionista) che non chiede > garanzie economiche alla proprietà («sono in trattative - rivela j - per il riacquisto del mio pacchetto azionario»). Da Levi a Feltri, da un'impostazione liberal al vento leghista. Bella differenza... Certo. Ma non voglio far polemiche con Feltri. Lui fa il professionista, mantiene quello che ha promesso. Ma l'«Indipendente» attuale le piace? Mi sembra il primo esempio, in Italia, di giornale programmaticamente volgare. E questo senza parlare della linea politica: l'aggressione contro Bobbio, presentato come mandante morale dell'omicidio Calabresi; la patacca del falso scoop su Calabresi, già smontato alla corte di Catanzaro; l'attacco a Scalfaro... Non è tenero con Feltri. Lo rispetto, fa il suo giornale. Oddio, almeno una stretta di mano tra direttore uscente e nuovo si usa. Lui non mi ha mai cercato in quelle settimane in cui io, dimissionario, ho atteso il suo arrivo firmando il giornale. E l'ho fatto per rispetto dei redattori. Sessanta persone assunte da me. Ma la trasformazione, il trasformismo, no quello non dipende da Feltri. E' opera degli azionisti. Chi sono gli azionisti? Il progetto del giornale è mio. Ho lavorato sull'idea de L'Indipendente dall'87 al '90. Allora, nell'estate del '90 si è presentato il primo socio: Carlo Melzi, editore assieme alla famiglia Zanussi de Il Messaggero Veneto. Chi l'aveva trovato? Fin dall'inizio, come consulente finanziario, avevo scelto Guido Roberto Vitale dell'Euromobiliare. Ero suo cliente e lui mi ha trovato i soci. Poi, a fine '91, lui e Tiziano Barbieri di Sperling e Kupfer, azionista modesto, hanno avuto un ruolo centrale nel mio siluramento. E dopo Melzi? Sono arrivati gli altri. Cecilia Danieli, la famiglia Giorni di Lucca, Gandini, la Zanichelli. E Marco Rivetti. Lui era il più innamorato dell'idea, l'unico che non ha accettato il cambio di impostazione di febbraio. L'unico? Anche Alberto Falck, che ha una quota modesta, mi ha difeso. In consiglio, una volta, mi hanno accusato di non prender posizioni. E Falck è insorto: "Forse il giornale non lo leggete mai", ha detto. Dieci giorni dopo, il 22 gennaio, alcuni azionisti hanno votato il cambio di direzione e di indirizzo. Ma prima? C'erano critiche? No, anzi. Hanno voluto a tutti i costi che il direttore fossi io. E cos'è successo dopo? E' successo che il giornale, dopo un buon avvio, ha stentato. Contavamo di arrivare al pareggio a 80 mila copie. Dopo un buon avvio, a dicembre eravamo a meno di 50 mila. Era il momento di in¬ sistere, investire in promozione. Invece qualcuno si è spaventato: Perché? Perché si è fatta pubblicità come per una qualsiasi dispensa, per un bene di consumo: pubblicità iniziale massiccia, poi più nulla. Un giornale è un'altra cosa. Va curato, va seguito, rivisto. E' successo anche a Repubblica nella fase d'esordio. E invece... Invece? Invece, al momento di investire quattrini, si è deciso di saltare sul carro della protesta. L'illusione di saltare su un treno politico in grado di far fruttare vantaggi importanti e immediati. Ma la componente economica conta eccome. Forse quel giornale non aveva mercato. Oggi si trovano a ricapitalizzare un giornale da 30 mila copie, quello che vendevamo tre mesi fa. E credo che il patrimonio accumulato in quei mesi non fosse indifferente. Un giornale vale, soprattutto, per il suo avviamento, per la sua posizione pubblicitaria. E su quel fronte andavamo meglio delle previsioni. Ma non hanno avuto coraggio. Perché? E' il trasformismo all'italiana. Si è saltati con disinvoltura da un'altra parte, nella più piena in¬ differenza politica e culturale. E' la mentalità di questi imprenditori, è l'indifferenza morale. E c'è di più. Che altro c'è? Tutto è svenuto senza consultare i piccoli azionisti. Bella prova di modernità, di democrazia. No, non me l'aspettavo. E non a caso avevo studiato uno statuto a prova di bomba contro una scalata dall'esterno. Ma al tradimento da dentro non ci credevo. E adesso? Al progetto ci credo ancora. Ma dopo un disastro così l'idea è bruciata, almeno per i quotidiani. Studio qualcosa del genere per i settimanali. E preparo qualcosa per la tv. Allora ci riprova? Ho dei progetti da sottoporre agli editori. Ero e resto convinto che i grandi giornali ormai debbano coprire un pubblico universale e lascino spazio per un prodotto di qualità, non gridato, aperto all'estero. Almeno il pregio della coerenza va riconosciuto a Ricardo Franco Levi. E non è cosa da poco, di questi tempi, quando torna a far capolino il vecchio vizio del trasformismo. Ugo Bertone // voltafaccia degli azionisti maggiori. La famiglia Zanussi nella società. Ricardo Franco Levi, fondatore dell'Indipendente a fine '91. A destra: la testata del giornale, l'unica cosa rimasta uguale.

Luoghi citati: Catanzaro, Italia, Lucca, Milano