Fratelli d'Italia, rivali negli Usa di Furio Colombo

Fratelli d'Italia, rivali negli Usa Dibattito della Fondazione Agnelli a New York: 500 anni d'immigrazione Fratelli d'Italia, rivali negli Usa Basta un cognome per una patente di mafia A NEW YORK LLA fine di maggio la Fondazione Agnelli - con il Center for Migration Studies - ha organizzato alla New York University un convegno dal titolo «Thè' Columbus People... Conferenza internazionale su 500 anni di immigrazione italiana nelle Americhe». Credo che sia stato il modo più serio e sereno di celebrare l'anniversario della scoperta dell'America. Ma è anche il più difficile. O almeno lo è stato l'ultimo pomeriggio, quello della discussione intitolata: «Italiani e italiani americani: il passato e il futuro». Si trattava di mettere le mani sul più disagiato dei rapporti, fatto di celebrazioni reciproche e di diffidenze, di emozioni comuni e dell'ombra lunga di una incomprensione che si estende verso l'Italia, impenetrabile e ammirata, e, dall'Italia, verso quel misto di tradizioni tenaci e di appassionata partecipazione all'America che sono gli italiani americani contemporanei. Sedendomi alla tavola del dibattito portavo con me voci ed esperienze che rifiutavano di combinarsi in una immagine coerente, in una conclusione armoniosa. Stavo ascoltando'Gay Talese, lo scrittore, Michael Barone, il giornalista, Helen Barolini,'intelligente testimone della doppia vita fra Italia e italiani americani, l'italianista Robert Viscusi, la sua passione personale, la sua raffinatezza critica. E, ascoltando, ricordavo la frase finale di un piccolo, bellissimo romanzo di Angela Bianchini, Capo d'Europa. La protagonista, giovane ebrea italiana, sta per imbarcarsi per l'America, il solo Paese che le darà salvezza. L'ammonisce la persona che a Lisbona si è occupata dei suoi documenti di imbarco; «Dalla nave; non si volti a guardare l'Europa. Pensi soltanto all'arrivo»! Alzo gliocchi alla sala, affollata. Riconosco personaggi della comunità italiana americana. Protagonisti della vita universitaria, dirigenti di club di quartiere. Ci sono gli attori di un piccolo teatro italiano del Bronx che hanno messo in scena una splendida Locandiera. Ci sono molti insegnanti, perché in quel settore la presenza italiana americana è grande e importante. Non so se, parlando, saprò esprimere il mio disagio. Ma lo sento anche dalla loro parte. Questa è la celebrazione della comunità di emigranti che ha avuto più pena e più successo di ogni altra in America. Poco fa, in una intervista per la televisione italiana, Gay Talese mi ha detto: «Io sono "American Italian"». Ho dovuto fermarlo, chiedergli il perché di quel cambiamento dei due aggettivi. Tutti gli altri dicono: «italian american». Lui ha spiegato senza esitare: «Io sono americano. Però la mia memoria profonda è italiana, sono italiane le misteriose cose lasciate dentro di me dai genitori, dai nonni, da quelli venuti prima di loro, nel percorso della mia vita. Io quelle cose le sento molto e le conosco poco. Io sono un uomo di transizione, fra un Talese che era tutto italiano e un Talese che sarà tutto americano. Sono, in questo senso, una creatura imperfetta, perché c'è una parte di me stesso, inevitabile, che mi segue, mi condiziona, ma che io non conosco. C'è un italiano che si aggira con me. Ma io non posso capirlo, non ne parlo neppure la lingua». E mi racconta questa esperienza strana. E' a Maida, in Calabria, di fronte ai figli di quei membri della sua famiglia che non sono emigrati. Dice: «Hanno gli stessi occhi, lo stesso colore un po' olivastro della pelle, stessa attaccatura dei capelli, stesso modo di guardare, stesse pieghe intorno alla bocca. Siamo la stessa gente, lo vedo. Ma a parte questa mostruosa forza genetica, niente ci unisce. Siamo m luoghi e in tempi diversi della storia. Non parliamo una parola della lingua dell'altro. Eppure mio padre diceva che questa era la sua casa, questo il suo paese». La mattina, prima di questa discussione conclusiva del Convegno, erano venute a trovarmi all'Istituto di Cultura due giovani insegnanti di lingua italiana che il nostro ministero degli Esteri e quello della Pubblica istruzione mettono per un anno a disposizione delle scuole di New York. Sono neolaureate in lingue straniere, intelligenti e capaci. Una ha lavorato con i bambini, bianchi, neri, ispanici. Ha dato loro la conoscenza dell'italiano come si dà un giocattolo. Mi dice che il suo minuscolo pubblico, pur non avendo alcun legame con l'Italia, si è buttato con entusiasmo nell'avventura. Fra qualche giorno concluderanno l'anno scolastico con una recita in italiano, frammenti della Commedia dell'Arte, di fronte a genitori bianchi, néri, ispanici, asiatici, forse colti di sorpresa da questa strana attività dei loro bambini. L'altra insegnante ha lavorato in una «High School» di ragazzi italiani americani. Racconta: «Mi guardavano scettici. Rispettosi, ma scettici. Questa strana idea di imparare l'italiano gli interessava poco. La maggior parte di loro non vedeva alcuna ragione di collegare il loro nome di famiglia con questa lingua, che non è l'inglese, la sola che, se studiata e pronunciata bene, darà frutti e compenso. La maggior parte non era mai stata in Italia e non pensava di andarci». Alzo gli occhi sulla folla, nell'aula magna della New York University. Sono i volti del benessere americano, non la ricchezza ma certo la solida dignità della classe media. Scatterà qualche volta, nella loro vita, la trappola del nome italiano, dell'identità del «vecchio paese» che li blocca o rallenta la corsa? Mi accorgo che questo dibattito è il cuore dell'equivoco, il punto caldo di qualcosa di strano e irrisolto. Che rapporto c'è, che rapporto dovrebbe esserci, fra italiani e italiani americani? Perché entrambe le parti, nel momento di farsi avanti, sembrano trattenute da una esitazione, da un secondo pensiero? E nella rispettiva immagine, hanno davvero qualcosa in comune, un nemico in comune, un pregiudizio in comune? O c'è invece un silenzioso pensiero che li divide? Per un italiano è inevitabile affrontare la domanda che tanti ti fanno in Italia. Noi, gli «Italiani from Italy», che immagine abbiamo degli italiani americani? E loro, come ci vedono, come ci giudicano? Rispondo sempre con esitazione, contando sul fatto che, intanto, qualche film, qualche libro abbia dato una risposta, abbia suggerito qualcosa. Se dovessi rischiare, direi che anche per noi - gli italiani - è scoccata l'ora del dopo Guerra Fredda. Siamo un grande luogo turistico ma non siamo una portaerei nel Mediterraneo. Siamo il più grande museo del mondo, ma non la sponda estrèma dell'Occidente democratico. Stiamo diventando meno interessanti. Mi raccontano in tanti dell'anti-americanismo che si sta diffondendo in Italia. Potrei rispondere che qui non se ne accorgono. In questa zona d'ombra della storia noto il ritorno postmoderno del mito. L'Italia come luogo magico. Andate a vedere al Lincoln Center la nuova commedia di John Guare Four Baboons adoring the Sun (Quattro scimmie adorano il sole). E' un teatro di amore e di morte nella stessa Sicilia, anzi nello stesso tratto di autostrada in cui è saltato in aria il giudice Falcone, con sua moglie, con la sua scorta. Ma qui, nella Sicilia americana ricostruita, è il dio Eros a creare complotti, a guidare gli eventi, a spiegare la morte e la morte è la caduta dalle rocce di un bambino americano che incautamente si è dato, nell'esaltazione mitica del viaggio, il nome di Icaro. Mi ero irritato, vedendo la prima volta lo spettacolo. Ripensandoci adesso, prima di parlare alla conclusione di questo Convegno, mi dico che forse John Guare ha visto giusto. Mi sembra che la lezione, almeno per gli stranieri sia: per amare l'Italia e attraversarla impunemente restate turisti. Non toccate i fili misteriosi del suo passato. Dirò che hanno ragione? Di fronte a me, gli italiani americani (o americani italiani) che ascoltano sono le persone di transizione di cui parla Talese, sono americani di buon successo e con uno dei tanti cognomi strani di questo Paese, o sono italiani trapiantati che hanno conservato le radici del bene e del male del vecchio albero? Chissà se sanno che presso l'American Jewish Committee, a New York, esiste un ufficio che è stato creato per difendere gli italiani americani in caso di «diffamazione», così come vengono difesi dallo stesso pericolo gli americani ebrei? Chissà se, sapendolo, si offenderebbero o penserebbero a un aiuto fraterno? Non so se si sia mai riflettuto sul fatto che questa grande comunità è isolata dalla lingua, dal nome, dalla storia, ma non dalla religione, che ha in comune con tanti altri gruppi americani. Questo fatto dovrebbe essere un beneficio. Ma non lo è. Perché cultura e tradizione, in America, rispettano più la religione che l'etnia, diffidano delle diversità nazionali, non di quelle religiose. E allora gli italiani, venendo in America, diventando americani, hanno perso una parte della loro corazza. Sono cattolici come tanti. Ma soltanto loro sono «italiani». Figli di Colombo, diciamo noi, gli americani, persino il New York Times, non hanno molte esitazioni a parlare di mafia, quando il nome è italiano. Ho già scritto su questo giornale del caso di Caterina Abate, giovane avvocato dal passato impeccabile appena nominato direttore del sistema penitenziario di New York. Il tempo di pubblicare il suo nome, e subito molti hanno ceduto alla seduzione del nome. Pare che il padre di Caterina Abate trenta o quaranta armi fa (adesso ne ha quasi novanta) fosse stato sospettato di essere «vicino alla mafia», Il New York Times ha pubblicato un editoriale dal titolo «Le colpe dei padri». Ha ricevuto alcune lettere indignate (ne ho firmata una anch'io) e ha lasciato perdere, mostrando di non avere prove o argomenti E allora a me è sembrato che un buon modo di aprire la mia parte del convegno era di ricordare il giudice Falcone, di fare e di ripetere il nome del giudice italiano che ha dato alla giustizia americana un contributo più grande dell'intero Fbi. Ma il Convegno della Fondazione Agnelli (che ha avuto molti altri'eventi, dibattiti, discussioni, incontri, dalla storia alla pedagogia, dal senso di una cultura al fenomeno sociale dell'emigrazione, e che si è dotato di voci autorevoli, americane e italiane, su ciascuno di questi punti) era il luogo giusto per questo discorso. E' un territorio comune fra italiani e italiani americani, costruito dalla Fondazione in oltre quindici anni di continuo lavoro. Per la prima volta gli italiani americani vengano qui a incontrare italiani non per autocelebrarsi o abbandonarsi alla nostalgia, ma per fare qualche passo avanti di conoscenza e verifica. Il meno clamoroso, il meno controverso, fra i tanti modi di ricordare i cinquecento anni deirincontro fra due mondi, sarà forse il più utile. Furio Colombo Palese: «In tne c'è un italiano ma non capisco neppure la lingua» m 9 Un locate di Little Italy. Accanto, lo scrittore Gay Talese Sotto: Mario Cuomo, simbolo degli immigrati di successo