Svanisco e non l'accetto... di Giovanni Arpino

Svanisco e non l'accetto... Svanisco e non l'accetto... N MOLINETTE 3 novembre 1987 (Usi 1-23 San Giovanni) ON è male ritrovarsi qui senza posate, senza acqua minerale, bicchiere. Le lenzuola sono chiamate «traverse» e traversalmente tu vivi nel corridoio. Gente coi tubi nel naso, altri che fumano di nascosto le ultime - sempre: le ultime - sigarette, le infermiere sono le uniche creature che non perdono la voce, sanno ancora ridere, ti offrono una mela cotta - senza cucchiaino, sia chiaro - come Venere si offriva uscendo dal mare. Qui non è male capire che tutto è lontanissimo, forse mai accaduto: il male vero non è che un confine dove tocchi il chiuso, il coperchio che non si disserra. Purché sia Male vero e non soltanto un vile, umiliante dolore. Qui c'è chi non c'è. C'è anche l'ironia della luna piena. I malati hanno maledetto tutto il giorno certi muratori rumorosi al lavoro: sapevano troppo di vita esterna, quella che disturba la grande quiete, il passo silenzioso del Male. Anche i giornali d'oggi invecchiano più rapidamente, ma inalati, intubati e svociati, tentano di parlare delle partite a football di domani: ci sarà la Juve, un nome ormai misterioso, un'idea che latinamente credevamo di capire e possedere. E ci sarà il Milan, grande città che forse andrebbe ricordata meglio dal malato, perché l'illusione della salute eterna è molto lombarda. Resta la luna piena, d'un pallore solenne, e guarda i vetri delle Molinette come una Madonna di gesso guarda, esplora, ma né vede né giudica i poveri pastori del presepe. Ora arriverà un'iniezione, un professore, una proposta, stra¬ tegie che prevedono di farti tirare avanti (ma non c'è indirizzo, traguardo, è un «avanti» così, marinaresco, «avanti tutta» da capitano a nostromo. Per dove non si sa, forse non è consentito saperlo. Anche il professore s'accarezza un orecchio. Se ne va). Qui non sbolognano i vecchi d'agosto ma solo i grandi malati parcheggiati col loro punto terminale che solo qualche occhio vede. E chi vede tace, si strugge persino nel mentire: il medico non può eliminare dalla sua scienza sia la menzogna cosciente sia la speranza casuale. (E' anch'essa un bagaglio da trasportare di letto in letto dalla fleboclisi al pappagallo dal purè precotto al cortisone). Il telefono a gettone sussurra varie raucedini, s'appella a chissà quali orecchi lontani. E' l'ultimo filo prima della notte, dei rantoli, dei passi furtivi, prima di un'alba che spadellerà richiami di inservienti, ampolle d'orina, pigiami disfatti, speranze che non vogliono morire. Tutti ritengono d'aver compiuto un altro passo. Non vogliono vedere il colore che muta sotto gli occhi, ingannano la camminata fingendola meno tremula, ma non ci si guarda più l'un l'altro. L'altro è già lo specchio del nemico ih agguato. L'altro sei già tu che stai svanendo e non vuoi, non accetti. Mentre la luna piena continuerà stanotte: lei sola ci conta uno ad uno, pronta a sostituirti appena un letto sarà disponibile. L'infermiere dal volto bambino dopo la quarta flebo confessa di scrivere poesie, molte dedicate alla moglie. Se ha la mano santa come con l'ago meriterebbe attenzione; se invece è anche lui vago e sognatore e non lettore che dirgli? Mi manderà le fotocopie, 1 indirizzo, il telefono. Dovrò dirgli-dargli un giudizio ma spero di averlo questo giudizio. Mi aiuterà il cortisone? Certo non i budini che sanno di legno, i semolini che sanno di ottone e il tempo che si consuma, un pegno scaduto, mentre arriva l'esattore misurando le ore. Immobili, intubati, bloccati supini nei letti guardano la partita di calcio. Tutta in questi novanta minuti la vita, purché cada la memoria, purché si fermi la storia, il dolore al polmone, al naso al collo forato. E' la partita - ancora che li salva, e sono straziati ma felici perché gli unici ad averlo ai piedi del letto il televisore, compagno morboso di un presente che è tutto il futuro rimasto. Nella notte i campanelli dell'urgenza suoneranno a lungo, piangeranno le lenzuola, squittiranno scarpe di gomma ma l'Inter ha vinto e qualcuno si consola. Giovanni Arpino