PARTITO D'AZIONE l'Italia impossibile

PARTITO D'AZIONE l'Italia impossibileOggi avrebbe cinquant'anni. Che cosa è rimasto di quell'esperienza? Ne parliamo con Galante Garrone PARTITO D'AZIONE l'Italia impossibile EISCHIA come si fa a non provare vergogna per lo spettacolo inverecondo di quest'Italia irriconoscibile, infestata da ruberie e tangenti, violentata dalla mafia, noncurante dello stato della pubblica finanza? Sì, davanti a quest'Italia cosi malridotta anch'io mi vergogno di essere italiano. E Norberto Bobbio ha fatto benissimo a dirlo chiaro e forte». L'aria sottile e la brezza leggera che scompiglia la vegetazione di Lacco Ameno, a pochi chilometri dal porto dell'isola di Ischia, certo non sono sufficienti ad addolcire l'indignazione di Alessandro Galante Garrone. Si trova qui, il combattente azionista che a ottobre compirà 83 anni, per ritemprarsi il corpo e lo spirito. Ma anche, confessa con pudica commozione, per tenersi lontano da Torino in uno dei momenti più tristi della sua vita. Fesa su di lui il ricordo di Giorgio Agosti, l'amico più caro scomparso il mese scorso e di cui serba, indelebile, la memoria delle ultime parole. «Era assopito sul suo letto d'ospedale - rammenta Galante Garrone -, mi sono avvicinato e per scuoterlo un po' gli ho detto: "Giorgio, ho da darti una buona notizia. L'Accademia delle Scienze ha assegnato a Vittorio Eoa il Premio Martinetto", il premio che viene conferito a un uomo che nella sua vita abbia saputo sfidare l'impopolarità e il conformismo. "Pensa, Giorgio, Vittorio l'avevi proposto tu". "Sono contento", mi ha risposto. Sono state le sue ultime parole». Vittorio Foa e Giorgio Agosti, il ricordo di Galante Garrone accomuna due protagonisti di quel partito d'Azione che proprio in questi primi giorni di giugno avrebbe compiuto cinquant'anni se non si fosse sciolto nel '46. Un partito piccolo ma combattivo, destinato a soccombere a soli cinque anni di vita eppure fondamentale per la storia dell'Italia repubblicana. Un cenacolo di uomini illustri e ammirati anche dagli avversari e tuttavia, in questi ultimi anni, al centro delle polemiche storiografiche. Un partito, vuole subito sottolineare Galante Garrone che dell'azionismo torinese è stato uno degli artefici, nato proprio da quel sentimento di «vergogna» per l'Italia di cartapesta frutto della retorica fascista. Per questo, per capire che còsa fu l'azioni smo, Galante Garrone difende Bobbio dagli attacchi di Lucio Libertini e di Franco Ferrarotti. «Mi vergogno di essere italiano», disse il filosofo torinese il giorno dopo l'assassinio del giudice Falcone. «Anche noi ci si vergognava della mistificazione costruita dall'Italia ufficiale. E quando vedevamo i bombardieri americani che pure distruggevano le nostre città, capivamo che era in gioco qualcosa di superiore: o la vittoria della civiltà o il trionfo della mistificazione. La Resistenza nacque proprio per ridare fierezza e orgoglio all'altra Italia, quella che si schierava dalla parte della civiltà». Professor Galante Garrone, ma non fu proprio l'ostilità, e talvolta il disprezzo per gli italiani «in carne ed ossa», un limite dell'azionismo? Nessuna ostilità e assolutamente nessun disprezzo. Rifiutavamo l'Italia fascista, l'Italia che nel regime si era piegata e infiacchita. Ma nutrivamo una vera e propria adorazione per l'Italia rimpianta nel diario di Piero Calamandrei e negli scritti di Luigi Russo e di Pietro Pan- crazi. L'Italia della storia, dell'arte, della piccola e umile gente diversa, diversissima dalla rappresentazione falsa e menzognera del fascismo. E invece si leggano le lettere bellissime, commoventi che un uomo del calibro di Adolfo Omodeo scriveva a quel ragazzetto di ventanni che ero io: affiorava tutto il disgusto, quasi il sentirsi offeso di un italiano avvilito dallo spettacolo dell'Italia dei fascisti. Però gli avversari dipingono il «tipo» azionista come un intellettuale altezzoso, di sentimenti elitari e persino un po' aristocratici. Ma come si fa a definire altez- zoso lo spirito con cui tanti di noi si gettarono senza risparmio nel fuoco della lotta, che decisero di esporsi fino al sacrificio personale nella battaglia contro il fascismo? Bobbio, Livio Bianco, Alessandro Passerin d'Entrèves, Giorgio Agosti, Leone Ginzburg, Massimo Mila, tutti quei giovani che come me a Torino si ricollegavano all'esperienza di Piero Gobetti e prima ancora, come anelli di una catena ininterrotta, ai maestri di Gobetti come Gioele Solari e Luigi Einaudi, furono subito conquistati dal liberalismo intransigente, battagliero, coraggioso che scaturiva da quella esperienza. Elitari? Altezzosi? Ma per noi che ci eravamo abbeverati alla «religione della libertà» di Benedetto Croce e che «non potevamo non dirci crociani» la rottura con quel grande filosofo avvenne proprio perché sentivamo che non ci poteva più appagare quel dorato imprigionamento della libertà in un empireo inaccessibile che si compendiava nella lezione di Croce. Ci sentivamo attratti di più dall'inquietudine di Omodeo, che pure con Croce aveva materialmente redatto interi fascicoli della Crìtica, e che ci affascinò con la formula, ricordata da Vittorio Foa nel suo il cavallo e la torre, della «libertà liberatrice». Leggeva- mo avidamente Pensiero e azione del Risorgimento di Luigi Salvatorelli. E sentivamo a noi più consona la lezione che da Parigi ci giungeva attraverso gli uomini di Giustizia e Libertà. Croce li accusava di voler contaminare «libertà» e «giustizia». «Ircocervo», definiva Croce il «socialismo liberale». Già, ma a noi non interessava la dissertazione filosofica sulla compatibilità o meno di due concetti come libertà e giustizia. Ci conquistava l'audacia, l'impazienza generosa di uomini come Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Aldo Garosci, torinese e cugino di Giorgio Agosti, Emilio Lussu, Franco Venturi, che già allora, giovanissimo, era uno storico di valore. Era gente che riscattava insieme l'immobilismo del liberalismo crociano e il senso di sconfitta di quel socialismo fiaccato e frustrato che si riassumeva in una formula del pur valoroso Claudio Treves: «Il Primo maggio dei vinti». La fucina dell'azionismo. Nomi illustri che gettano il seme di quello che nel '42 diventerà «il partito degli intellettuali». Lei è d'accordo con questa definizione? No, se usata con malanimo. Certamente però in Rosselli e in generale nell'esperienza di Giustizia e Libertà c'era come un impulso a diventare, in virtù di superiori qualità intellettuali, le guide autorizzate a impartire ordini, a dare le direttive. E in un movimento cbe non aveva una storia alle spalle e nemmeno un'adesione di massa poteva nascere la tentazione che gli intellettuali si sentissero 1'«avanguardia». Come il partito teorizzato da Lenin, se si preferisce. Ma nel nome della democrazia, intendiamoci, non in quello della dittatura del proletariato. A cinquant'anni di distanza, ritiene che questa sopravvalutazione del ruolo degli intellettuali abbia prodotto in voi una certa propensione all'astrattezza? Certo, chi conosce la storia del partito d'Azione sa quanto abbia negativamente inciso nella sua vita e nella sua precoce morte una spropositata inclinazione alla schermaglia ideologi¬ ca. Per quello che mi riguarda attribuisco a questa indubbia astrattezza un mio articolo destinato all'organo del Gin in cui formulavo violente critiche alla disponibilità di Togliatti di entrare nel governo Badoglio. Però quell'articolo, sonoramente sconfessato da Mario Andreis, non fu mai pubblicato. Togliatti, i comunisti, l'Unione Sovietica. E' vero che gli azionisti chiusero un occhio, o comunque non denunciarono con sufficiente energia, i delitti perpetrati da Stalin? A questa sciocca obiezione che da un po' di tempo circola con insistenza vorrei rispondere con la massima franchezza. Noi sapevamo di quello che stava accadendo in Urss: l'ignominia delle purghe e dei processi-farsa. Deplorammo tutto ciò seguendo in questo la lezione di Gaetano Salvemini. Ma su un punto non potevamo transigere: assieme ai comunisti noi stavamo combattendo una battaglia alla morte contro il comune nemico fascista e nazista. Tra noi e i comunisti ci furono, anche in sede Chi; dei dissidi duri e talvolta molto aspri. Ma uno come me non poteva non avere un'infinita stima per il comunista Luigi Capriolo, uomo idealista e un po' ingenuo che pagò con la vita il suo attaccamento alla fede. Le notizie terribili che venivano dall'Urss dovevano forse impedirci di lottare con gente come Capriolo? Anche nel partito d'Azione su questo punto c'era un acceso dibattito. Nel partito d'Azione confluirono uomini a matrici culturali tra loro diversissime. Ex comunisti come Leo Valiani, liberalsocialisti come Guido Calogero, liberaldemocratici come Ugo La Malfa, socialisti come Lussu, ex repubblicani come Ferruccio Parri, gobettiani come me e mio fratello Carlo, Livio Bianco, Agosti, Foa che aveva patito le galere fasciste. E' naturale che in questa eterogeneità questo punto, come altri, provocasse grandi discussioni. C'era poco cemento tra noi, pochissima omogeneità culturale. Anche per questo quella storia firn così presto. Ma sono certo che di quella straordinaria esperienza nulla è andato perduto. Pierluigi Battista «Ci accusano d'aver taciuto sull'UrssNon è vero. E i processi staliniani non potevano impedirci di lottare con i comunisti contro il fascismo» «Arroganti? Altezzosi? Per nulla. Fummo subito conquistati danti liberalismo intransigente» Sopra, Alessandro Galante Garrone. Nell'immagine grande a fianco, un momento della sfilata a Torino, il 6 maggio '45, per solennizzare la Liberazione Piero Gobetti fu uno dei maestri per i giovani «azionisti» A sinistra Leone Ginzburg, nel gruppo torinese insieme a Galante Garrone, Livio Bianco, Giorgio Agosti, Massimo Mila, Norberto Bobbio e Passerin d'Entrèves Sopra, Ferruccio Pani Sotto, Norberto Bobbio Sopra, Ugo La Malfa