LE PAROLE SONO COSE di 1. G.

LE PAROLE SONO COSE LE PAROLE SONO COSE TORINO ELLE o brutte, per me pari sono: davanti alle parole il linguista ha il I dovere di essere democraticamente imperturbabile. Lo aveva detto subito Tristano Bolelli, all'inizio del nostro referendum; lo ha confermato a metà strada Tullio De Mauro. Lo ha ribadito Gian Luigi Beccaria, al Salone del libro per discutere con Beniamino Placido, Stefano Bartezzaghi, Lorenzo Mondo, Giorgio Calcagno e Nico Orengo, il vocabolario di amori e odi di Tuttolibrì: un bilancio, non accademico e non notarile, per un referendum che ha coinvolto per dieci settimane cinquemila lettori, senza gettoni, premi e frizzi vari; ha catturato scrittori e filosofi, personaggi dell'arte e dello spettacolo, è diventato un esercizio di grammatica per decine di scuole e un simpatico tormentone da salotto. Beccaria, ex cathedra (è in libreria per Garzanti la nuova edizione del suo Italiano. Antico e nuovo), non può concedersi predilezioni. Per tutti gli altri invece la faziosità è stata un obbligo: condensare in una parola, una sola (era la regola del gioco), umori e idiosincrasie, il dolce e l'amaro. La stragrande maggioranza ha fatto prevalere il significato sul suono e la classifica premia o boccia le parole astratte, quelle che esprimono valori e virtù, orrori e peccati. Si ama soprattutto l'amore, la libertà, la vita, l'amicizia, la mamma, la serenità, la pace, il silenzio: le sole ad aver raccolto più di 50 voti. Così come si odiano la guerra, l'odio, l'indifferenza, la violenza, la morte. Una classifica del bene e del male, dove l'etica vince la fonetica eie cose schiacciano le"parole. Un esito inevitabile? Forse, perché i linguisti insegnano da sempre che le parole non sono monadi, non le si può recidere come perle dal guscio dell'ostrica, dimenticando il contesto del discorso e del tempo, chi e quando le pronuncia. Le parole nascono, cambiano, muoiono con noi. Ad esempio, «impegno» godeva un'appassionata popolarità negli Anni 60, è decaduta, rimossa: «ahimè!», ha sussurato Placido. Ora trionfa «gente» e lui la odia («pericolosa e demagogica», anche ruffiana: si presume basti ricorrere all'uomo della strada, alla platea, per avere ragione. E successo). Ama al contrario «memoria», citando Valéry: «l'unico paradiso dal quale nessuno ci può cacciare». Così «Amore» può risuonare voce banale e logora nella chiacchiera d'oggi, non certo in Dante, ha ricordato Mondo. In cima alla scala delle sue parole amate, «segni di spirituale genitura», c'è «Dio», dove trova posto, come in una nicchia, un irriducibile io, «che si acquatta, quasi orante». All'ultimo gradino sta «burocrate, la più molesta delle divinità che ci affliggono, per prender figura di parola ha avuto bisogno di due lingue, il francese e l'inglese». Sul versante dell'eufonia, per chi ricorda le «vocali colorate» di Rimbaud, vanno cacciati dal vocabolario gerghi e specialismi, mode e snobismi, «mezzecalzetterie di chi Vuol impreziosire»: via «attimino» e «sinergia», basta con «okay» («si vede che abbiam perso la guerra», mormorava, tra il pubblico, Luciano De Crescenzo). Porte aperte, piuttosto, all'inventiva, ai termini più rari, magari anche bizzarri, ruspanti, belli & benigni (nel senso di Gioachino e Roberto). Qui la cosa potrebbe anche seguire la parola. Ad esempio, un lettore ha partorito «accavallavacca», ipotetico arnese «per mettere mucca su mucca, guadagnando spazio», parola preziosa, omovocalica e palindroma, per chi segue i giochi di Bartezzaghi. E il ludologo di Tuttolibrì ha ristabilito il primato del suono, sferzando «le parole fusa» e «le parole de paura»: messe in fila formano proprio «quella glassa detestata», nelle fauci degli «andreotti» (votato, e accolto da Bartezzaghi, come plurale di andreotto, forse una propaggine italica àeW'anèr, andròs greco). E questo oggi, ha dovuto ammettere anche il neutrale Beccaria, è lo «svaccamento» del discorso. Chi consuma buone parole per coprire cattive realtà, dovrebbe esser preso, direbbe padre Dante, per la cuticagna. [1. g.]

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