PIETRO BIANCHI di Giovanni Mosca

PIETRO BIANCHI PIETRO BIANCHI la letteratura va al cinema *WOI non sappiamo cosa JlB sia. Ma il nostro cineJBB ma pare poco italiano. I «B O è un'Italia di stanca j WL maniera, ricalcata sul I ma patriottismo delle do| meniche, o un'Italia l, WÈ di tenori grassi infelici. V ci per le giovani mogli V che fuggono o di primedonne con doppio mento e figlie con bambini senza permesso del prete; o questa in abiti di bianco sporco, con cravatte a grossi pallini, che sembra preferire il solerte Amedeo...». Il solerte Amedeo era ovviamente Amedeo Nazzari, il divo per tutte le stagioni. La noterella del critico Pietrino Bianchi (Parma, 1909-1976) è del 1940. Piena stagione fascista, tanto piena e matura da essere ormai marcia di .guerra imminente. Rileggendola, questa noterella cinematografica, provo la sorpresa di recuperarvi il messaggio d'epoca. La giustificazione dell'esistenza di una cultura sotto la dittatura, qualsiasi dittatura, di qualsiasi colore e di qualsiasi tendenza. Ricordarlo, oggi che le sale cinematografiche si sono così ridotte di numero, che il piccolo schermo della televisione depreda il grande schermo dei film migliori e li rimescola e riversa pariteticamente ai peggiori nella disattenta grettezza delle mura domestiche, significa per me contribuire a pagare, sia pure parzialmente e inadeguatamente, un certo debito generazionale. Non a caso Italo Calvino, nello splendido saggio Autobiografia di uno spettatore premesso all'edizione einaudiana del 1974 di Quattro film di Federico Fellini, riconosceva: «Dei critici di quel tempo seguivo Volpone, che era poi Pietro Bianchi, che per primo gettava un ponte tra cinema e letteratura». Quelle recensioni apparse sul «Bertoldo» di Mosca e Metz all'insegna «Occhio di Vetro» e firmate appunto Volpone, si impressero insidiosamente e irresistibilmente nella nostra memoria anche, e forse soprattutto, perché pubblicate da un foglio umoristico. La satira politica era stata soppressa in Italia. Era proibito far ridere del potere. Quelli del «Bertoldo» si provarono a far sorridere un poco di tutto e di tutti. Ugoberto Alfassio Grimaldi, in un ragguardevole libro scritto insieme con Gherardo Bozzetti per Laterza sull'entrata dell'Italia in guerra, Dieci giugno 1940, il giorno della follia, ha stilato un giudizio severissimo su coloro che fecero il «Bertoldo»: «Era il giornale più intelligente d'Italia, più del "Corrierone" e del greve "Tevere". Sotto la vernice intellettuale i giovani Mosca, Guareschi, Emmetizeta erano incapaci di un gesto umano: dotati di notevole intelligenza, la usarono cinicamente: e fu il cinismo, questa nefasta virtù, che trasmisero agli italiani. Niente fecero questi uomini intelligenti, che certamente sapevano, capivano come andavano le cose, per arrestare i loro fratelli sull'orlo dell'abisso. Non seppero e non vollero aprire gli occhi a sé e agli altri, Giovanni Gentile, nei suoi sillogismi assurdi, era in fondo più onesto di loro...». E' troppo facile essere severissimi a posteriori, rimproverare con il senno di poi agli altri il tormento per il proprio passato. In fin dei conti, in quello stesso fatale 1940, Ugoberto Alfas¬ sio Grimaldi, certo non ancora storico socialista, scriveva su «Gerarchia»: «Secondo la nuova concezione del mondo che il razzismo porta con sé, concezione che per la sua necessaria esplorazione nel tempo si addentra nella storia antica e nella preistoria, l'umanità, il genere umano concepito come "genus", con carattere di omogeneità, è una astratta finzione. Contro il mito egualitaristico e livellatore portato dalla cultura enciclopedica, il razzismo afferma, quale dato originario, la diseguaglianza, la differenziazione che trova l'espressione più tangibile nella varietà delle razze e dei popoli. La diseguaglianza dei sangui e dei popoh presuppone la necessità di una gerarchia...». Ad alcuni, magari per la loro eccessiva serietà, non sto a discutere, era proprio arduo aprire gli occhi. Ad altri, magari per la loro eccessiva futilità, non sto a discutere, era più agevole. Non sto a discutere, non intendo discriminare, condannare né assolvere. Semplicemente vorrei sottolineare che la cultura italiana del tempo fascista tra il 1940 e il 1943, riesaminata, al netto della retorica e del rimorso postfascista, può rivelarsi un intrico di messaggi alla cultura italiana di questo tempo che non oserei definire. Oggi i messaggi che tutti son liberi di far circolare contano abbastanza poco, si intersecano, sovrappongono e annullano. Allora, la stessa decrittazione li rendeva preziosi. Cosa di più prezioso, a esempio, del messaggio contenuto in quel racconto di Elio Vittorini del 1939, Nome e lacrime, destinato addirittura a usurpare il titolo a «Conversazione in Sicilia» nella prima edizione in volume del 1941, trecentotrentacinque esemplari su carta Doppio Guinea, per i tipi di Parenti, Firenze? «Io scrivevo sulla ghiaia del giardino e già era buio da un pezzo con le luci accese a tutte le finestre. Passò il guardiano. "Che succede?", mi chiese. "Una parola", risposi. Egli si chinò a guardare, ma non vide. "Che parola è?", chiese di nuovo. "Bene", dissi io. "E' un nome". Egli agitò le sue chiavi. "Niente viva? Niente abbasso?". "Oh, no!", io esclamai. E risi anche. "E' un nome di persona", dissi. "Di una che aspettate?", egli chiese. "Sì", io risposi. "L'aspetto". Il guardiano allora si allontanò...». Il «Niente viva? Niente abbasso?» di Vittorini era un messaggio culturale. Ammetteva la possibilità che si scrivesse abbasso qualcuno o qualcosa per cui era addirittura proibito pensare abbasso. E anche la possibilità che si scrivesse viva qualcosa o qualcuno per cui era addirittura proibito pensare viva. E un messaggio culturale era senz'altro queir «Italia di stanca maniera, ricalcata sul patriottismo delle domeniche» di Pietrino Bianchi che figura all'inizio di questo ricordo. Stava a ribadire che non si riusciva più a sopportare la retorica, la menzogna, la mistificazione, ché~Tenfàsf s'èra ormai afflosciata e che, almeno per il cinema, ovvero il massimo della finzione, si desiderava un briciolo di sincerità. Di messaggi simili abbonda la rubrica di critica cinematografi- ca «Occhio di Vetro» tenuta da Pietrino Bianchi sul «Bertoldo» dal 1940 al 1943, ovvero sino alla fine del foglio umoristico nell'effimero stordimento di subito dopo il 25 luglio di quel fatidico anno. Messaggi consapevolmente o inconsapevolmente introdotti in bottiglia dall'autore che amava spacciarsi per Volpone. Dico inconsapevolmente perché il talento di Pietrino Bianchi è consistito proprio nelrimprevedibilità del suo carattere libero di andare controcorrente in qualsiasi momento e incapace di sottomettersi a qualsiasi ideologia. Scriveva, come per compiacere la più smaccata propaganda del regime: «Gli europei non possono essere idioti. L'idiozia, meglio l'essere fuori dalla Storia, è un fatto puramente americano...», ma scriveva anche, con uguale drasticità e uguale sarcasmo, come per sconfessare la portata di ogni propaganda fascista: «Questo fuggire davanti alla realtà del nostro cinema può voler dire parecchie cose; ma, a nostro avviso, ne significa una sola: l'immaturità spirituale...». Pungentemente colto, soprattutto di letteratura francese, ma anche di letteratura inglese, americana e italiana, com'era uso e costume nel suo dorato Granducato di Parma, Pietrino Bianchi, in quanto critico del nostro cinema, fu sempre vigile e agguerrito, non esitando a testimoniare con una forza pari all'eleganza le proprie delusioni. «Con il solito ritardo è avvenuto anche da noi l'accordo tra i letterati e il cinema, alludiamo a un accordo economico. Il cinema, diventato sempre più potente dal punto di vista finanziario, ha avuto bisogno di nuove intelligenze, e ha quindi arruolato in massa saggisti, critici, umoristi, poeti, pittori, eccetera. Era il momento che noi aspettavamo con una certa ansietà. Pensavamo che i nostri amici, intelligenti scrittori in genere e molti sinceri amici del cinema, avrebbero apportato quell'aria nuova, quelle esigenze spirituali, quella severità di metodo che mancavano al nostro cinema. Ma la grande speranza è mancata, la rivoluzione artistica non è avvenuta...» scriveva nel 1942: lui non si lasciava imbrogliare. Però non si lasciava neppure defraudare dell'oppportunità di riconoscere un buon film e di giudicarlo con competenza. Valga a esempio la sua recensione del 1943 a «Ossessione», il primo film di Luchino Visconti: «Il film ha grandi qualità e qualche difetto. E' chiaro che gli autori hanno giocato tutto sul capolavoro e questo fa sorridere un pochino perché il capolavoro non c'è. La poesia è come il coraggio di cui parla don Abbondio, che se uno non l'ha mica se lo può dare. Se si guarda invece al film così com'è, è giusto notare che si tratta, di un'opera insolita e ricca di pregi...». Ci ha insegnato a vedere, lui che doveva finire quasi cieco. Ci ha insegnato che, per vedere, gli occhi non bastano e, a volte, addirittura, non servono. Ci vuole altro. Quella dello spettatore è una missione. Quanto al «Bertoldo», la fine fu addirittura istruttiva. Dopo la caduta del fascismo storico, mentre esplodevano le manifestazioni festose di milioni di antifascisti che sino ad allora si erano ignorati come tali, un foglio umoristico non poteva, neppure con la migliore buona volontà o la peggiore malafede, ignorare gli eventi. Nell'ultimo «Bertoldo», una vignetta di Carletto Manzoni intitolata «Quando ci saranno i partiti», metteva in scena l'imminente collisione tra due cortei, l'uno con in testa il cartello «Vietato fumare», l'altro con in testa il cartello «Vietato sputare». Il disegno era bello, vagamente steinberghiano, ma la Battuta non ci fa ridere oggi neppure un poco. Nello stretto spazio che divideva i due cortei si schiudeva una porta, da cui spuntavano due nasi curiosi e timorosi. Uno dei due gemeva: «Addio, adesso s'incontrano i cortei e vedrai che si picchiano». Una sera, rincasando, Pietrino Bianchi sentì di là dalla porta sconosciute ma autoritarie voci maschili. Quasi d'istinto, girò la maniglia della porta accanto, allora, si sa, non si tenevano le porte chiuse a chiave, s'infrattò in un'altra casa. In questo modo sfuggì all'arresto da parte dei repubblichini. «Vedi che anche la lettura dei libri gialli serve?», disse alla moglie Carla, successivamente, mentre vagabondavano tra Emilia, Toscana e di nuovo Emilia. Oreste del Buono va al cinema Il critico del «Bertoldo», una voce contro sotto il fascismo Due «complici» di Bianchi: a sinistra Giovanni Guareschi, sopra Giovanni Mosca