ABBATE SMARRITO NEL BORGO DI ROMA di Fulvio Abbate

ABBATE SMARRITO NEL BORGO DI ROMA ABBATE SMARRITO NEL BORGO DI ROMA CARO Abbate, il tuo primo romanzo, che io non ho letto, Zero maggio a Palermo, ha raccolto riconoscimenti lusinghieri. Pampaloni scriveva che a tuo credito gli pareva di poter mettere «una certa freschezza, limpidezza e allegria». Questo tuo secondo romanzo, Oggi è un secolo, è molto più ambizioso se devo dar retta a ciò che leggo nel risvolto di copertina: il primo romanzo civile dell'Italia postmoderna. (Sull'uso anzi sull'abuso del termine - postmoderno - a un certo punto dovremo fare i conti). E' inutile che ti dica che le ambizioni sono pesanti e se non le sai sostenere ti cadono addosso come un sasso mortale. Tu hai saputo far fronte alle pretese del tuo progetto? Vediamo. Intanto il tuo progetto. Tu volevi raccontare la «tua rabbia ma anche la tua pietà» nei confronti dell'amara realtà in cui viviamo, della quale è testimonianza sufficiente la città di Roma in cui tu abiti, una città «marginale, con personaggi marginali, figli di una società che produce una vasta gamma di solitudini e valori sempre più bestiali)» Messo a punto il progetto ti sei chiesto: come lo racconto? E tra te e te hai aggiunto: certo, devo raccontare la Roma del '92, ma mai dimenticando che la sua devastazione è il punto di incontro e di confluenza di tutte le macerie del mondo. Detto e fatto. Hai affidato al tuo protagonista, un curioso (per non dire altro) professore di storia, l'incarico di comporre una storia del nostro tempo con le illustrazioni delle figurine (quelle che si comprano in busta alle edicole dei giornali) o alla peggio con foto e, perché no, con disegni appositamente preparati. Facilitato da questa trovata ti è stato possibile in meno di cento pagine far fare al tuo protagonisti! il giro del mondo (e della Storia), dalla prima guerra mondiale alla caduta dell'impero sovietico passando per la strage della stazione di Bologna e la guerra del Golfo. Poi di fronte alla sproporzione di tanta alata e ambiziosa sintesi e il pretesto troppo esile (il ricorso a figurine) che sembrava giustificarla (e renderla possibile) sei corso ai ripari. Per paura che qualcuno potesse attribuire la ridicolaggine del pretesto alla tua incapacità di trovare qualcosa di meno fragile hai deciso di scaricarla sulla volgarità di un editore romano, «una montagna d'uomo, vestito di un blazer elegante e con la barba d'argento». Abbozzato il quadro dell'orrendezza del tempo in cui viviamo (tracciato con dei segni che per sfuggire all'accusa di banale realismo si arricchivano di [anzi si allargavano con] notazioni a sorpresa più spesso risultanti divaganti) dovevi dar voce alla «tua rabbia ma anche alla tua pietà». Il problema era caricare di credibilità il tuo sdegno e dignità il tuo pianto. E non hai trovato di meglio che fare rinascere Pasolini («l'ultima vera voce civile italiana») facendolo incontrare dal tuo protagonista (azzardo onirico o ardita forzatura realistica?) nei pressi dell'Idroscalo alle prese con la sua (di Pasolini) Alfa Romeo in panne. E' vestito come era vestito sedici anni fa al momento della sua morte (canottiera verde e camicia di garza) e anche la macchina è la stessa. Il tuo protagonista gli offre con commossa solidarietà un passaggio (che Pasolini non esita ad accettare) e fa con lui il percorso a ritroso dal luogo della morte alla casa di via Eufrate (all'Eur). Durante il tragitto evita (per fortuna) di fargli domande e si limita a spiare sul suo volto attonito e severo (il volto dell'autore di Una vita violenta) la collera e l'amarezza di fronte all'ulteriore irreversibile degrado che ha sfregiato la città negli ultimi dieci anni. Per fortuna (ripeto) Pasolini non è parlante (altrimenti non so come avresti evitato la farsa) ma qualcuno deve pur parlare per rendere più esplicito lo sdegno o comunque per imbastire una qualche conclusione. E allora che ti viene in mente? Mandi il tuo protagonista, al ritorno da via Eufrate e da una sosta con un travestito, a visitare il Museo Civico di zoologia dove, mentre si aggira tra una mummia e l'altra, all'improvviso si sente chiamare per nome. A chiamarlo è lo stecco (un «insetto sottile, abituato a camuffarsi, a fare il filo d'erba») conservato nella bacheca degli ortotteri. Il tuo protagonista si avvicina e scambia con l'insetto alcune (definitive) battute. A dire il vero non capisco bene cosa si dicono (di cosa si lamentano). La battuta di Sciascia «ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa», che torna spesso nella loro conversazione, viene citata nel ruolo di monito cui aderire o di indicazione da cui guardarsi? In altre parole non capisco se per il tuo protagonista e lo stecco quella battuta è sospettabile di conformismo o, al contrario, da celebrare come regola (ahimè trascurata) dalla creatività e dall'efficienza vitale. Questo punto rimane oscuro, ma pazienza. Fin troppo chiara è invece la battuta finale con cui il protagonista si congeda dall'insetto e che rappresenta la conclusione del romanzo. Sollecitato infatti,dal protagonista, che a lui si rivolge con il titolo di sor maè (il modo con cui i ragazzi si rivolgevano a Pasolini), l'insetto dichiara: «E'... vero che oggi si è fatto tutto molto difficile da riconoscere, le contraddizioni sociali non riescono a stare nelle dita delle mani, ma non accuseremo il mondo di essere volgare... ci asciugheremo le lacrime e andremo laicamente verso la gioia». Caro Abbate non ci hai risparmiato nemmeno una chiusura di speranza. Come non esserti sconsolatamente riconoscenti? Angelo Guglielmi Fulvio Abbate Oggi è un secolo Theoria pp. 146, L. 24.000 Viaggio fra le macerie, tra rabbia e pietà, in compagnia ai Pasolini Sopra: un 'immagine di lioma A lato: Abbate e Pasolini

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