Gorbaciov: «La guerra fredda ci ha fatto dimenticare la gente»

Gorbaciov: «La guerra fredda ci ha fatto dimenticare la gente» Gorbaciov: «La guerra fredda ci ha fatto dimenticare la gente» molti Stati, rappresentanti di imprese medie e piccole. Penso che la loro inquietudine costituisca un indicatore perfino più sostanziale e serio dell'atteggiamento critico degli intellettuali: essi rappresentano infatti lo strato sociale più importante della società americana. Lamentano che l'attenzione dell'Amministrazione è concentrata soltanto sul grande business. Ma anche quest'ultimo - seppure con maggiore distacco - s'interroga sui cambiamenti che maturano nella società americana. In sostanza la percezione di cambiamenti necessari, inevitabili, percorre tutti gli strati sociali e trova una più esplicita espressione politica nei movimenti democratici e in quelli che rappresentano la popolazione nera. Sono questi ultimi ricordo l'incontro con Jesse Jackson - che pongono il problema della crisi delle istituzioni politiche, che parlano apertamente di una «crisi della democrazia». E parte degli intellettuali condivide questi giudizi. Io non ritengo che si tratti di una «crisi di sistema». Piuttosto mi sembra trattarsi di un dato della polemica elettorale. Ma i problemi sono innegabili. Quello che ho visto a Los Angeles non lascia dubbi. Certo, la povertà è evidente, e decinedi milioni di persone si trovano addirittura al di sotto di quella soglia. Il nuovo governo non potrà ignorare questo e altri problemi. Ma a maggior ragione ciò rende necessaria la difesa dei valori fondamentali e degl'istituti della democrazia americana. Sia perché essa dispone di un grande potenziale, sia perché permette di affrontare i problemi e, cosa ancora più importante, di comprenderne l'origine. L'America rimane una società aperta, dove le contraddizioni possono esprimersi e collidere anche vigorosamente. 11 che è premessa necessaria, anche se non sufficiente, per la loro soluzione. Ciò che ho visto è una società che dispone non soltanto di una grande forza economica e politica, ma è anche in grado di analizzare la propria condizione e elaborare una nuova politica. Sono sintomi di buona salute democratica. Non ci sono molti posti nel mondo dove una platea di 15.000 persone - com'è accaduto a Fulton - ascolta un discorso di 45 minuti, concepito per un uditorio specialistico, cogliendone i dettagli più raffinati. Un tale uditorio non s'improvvisa. Esso può esistere solo se centinaia di migliaia di cittadini hanno già discusso di quelle questioni, si sono formati un proprio punto di vista. E la stessa cosa l'ho provata di fronte ai 12.000 partecipanti di Stanford, riuniti per ascoltare un discorso sullo Stato di diritto, e altrove. Ho imparato qualcosa an¬ che in questo viaggio. Sapevo fin dall'inizio che non sarebbe stato possibile cambiare la situazione internazionale senza portare ad un altro livello le relazioni sovietico-americane. Conoscevo abbastanza bene i meccanismi dell'Occidente. L'ho detto a Reagan in uno dei nostri primi incontri: «La prego, non mi presenti l'America come un tempio in cima alla collina e tutto il resto del mondo iiell 'ombra. Sono cose che vanno bene per la stampa, ma non per me. Conosco l'America, le sue possibilità e la sua forza, le sue debolezze e i suoi problemi». Così era. Ma era anche vero che io non ero libero - né lo erano i miei interlocutori occidentali - dagli stereotipi della guerra fredda. Ci scrutavamo attraverso le sottili fessure della cortina di ferro, impediti per giunta dai nostri paraocchi. Così ora posso dire che la mia comprensione dell'America è stata un processo, che si nutrì di fonti diverse e di contatti diretti con gli americini. E' un processo che continua tuttora. Ho letto che il direttore della Cia, Robert Gates, riconosce ora che anche la parte americana aveva valutato erroneamente le nostre possibilità e intenzioni. Forse non del tutto innocentemente. Gli uni e gli altri deformavano l'informazione, per dimostrare la necessità dei programmi militari che hanno succhiato la gran parte delle energie vitali dei nostri due Paesi. Sapevo che avrei incontrato negli Stati Uniti anche critici e polemisti feroci, tutt'altro che teneri verso le mie concezioni. Su un punto ho insistito. Vi sono settori della società americana che pensano sia finalmente giunto il momento buono, in cui gli Stati Uniti possono affermare la loro unica leadership del mondo. Incluse le funzioni di gendarme. Se un tale punto di vista prevalesse, le conseguenze sarebbero negative, in primo luogo per gli stessi americani. Il mondo respingerebbe una tale pretesa che, peraltro, è errata e inattuabile. Tentativi in questa direzione finirebbero per ridurre il ruolo dell'America invece di estenderlo. Chi vuole soltanto dominare non è in grado di apprendere. E l'America non può agire in termini adeguati, senza imparare anch'essa qualcosa. Ad esempio che certi Paesi europei hanno risolto meglio di lei questioni cruciali della politica sociale. Penso che vincerà le elezioni proprio chi prenderà l'iniziativa di presentare un programma di audacia pari alle esigenze dei tempi a venire... Come uomo che ha portato il suo contributo al miglioramento dei rapporti sovieticoamericani e che augura uno sviluppo delle relazioni russoamericane, sento il diritto morale di parlare apertamente di questi problemi. L'ho fatto an¬ che nell'incontro con il Presidente Bush. Ho avuto l'impressione che egli, Baker e Scowcroft mi abbiano ascoltato con attenzione. Primi tentativi di formulare un nuovo ruolo dell'America sono visibili nelle loro dichiarazioni programmatiche. Ma essi richiedono uno sviluppo. Noi tutti, il mondo, la stessa società americana, attendiamo di ricevere netti segnali dell'intenzione dell'Amministrazione di costruire nuovi rapporti internazionali. C'è un ultimo aspetto da toccare. Riguarda i rapporti con la Russia. Ho sentito opinioni del tipo: «Abbiamo abbastanza problemi in America...». Sono segni di miopia. Oggi l'America risparmia 55 miliardi di dollari dalla fine della corsa al riarmo. Nell'incontro del G-7 di Londra le esitazioni americane e giapponesi impedirono di decidere un soccorso d'urgenza alle nostre riforme. I mesi successivi furono drammatici. Spero che quell'errore non si ripeta. La Russia ha bisogno urgente di aiuto, ora. Le dimensioni dell'aiuto richiesto sono perfino modeste rispetto alla vastità del problema. Non c'è tempo da perdere, altrimenti il treno può partire. Il governo russo dovrà correggere gl'indirizzi della riforma, ma l'Occidente non deve aspettare oltre. Né deve imporre criteri troppo rigidi e astratti, che costringano a trascurare le specificità della situazione russa nel momento presente. Il governo di Russia non può non tenerne conto, perché altrimenti si condannerebbe alla sconfìtta. Infine la mia risposta al quesito: «Chi aiutare?». Nell'interesse di tutti: la Russia. Semplicemente perché essa è già in pieno movimento riformatore. La stabilizzazione della Russia può avere un'influenza decisiva per tutti i soggetti che furono parte dell'Urss e per il processo internazionale di pace. Mikhail Gorbaciov Copyright La Stampa 1992 Gorbaciov in un momento del suo ultimo viaggio negli Stati Uniti