La fantasia è inglese di Gianni Rondolino

La fantasia è inglese Riscoperte sul cinema La fantasia è inglese H| EL 1957 Jacques Rivet- ■ te, allora critico combat- ■ tivo dei Cahiers dit Ci1 néma e ora raffinatissime kA\ regista, autore del recente e splendido La belle nòiseuse, scriveva: «Credo che il cinema francese sia in questo momento un cinema inglese che si ignora, o piuttosto un cinema inglese che non sa di essere tale». Intendeva dire, nella sua battaglia contro la produzione cinematografica francese «di qualità», che questa non era certo migliore della mediocrissima produzione britannica del tempo. E confermava un giudizio critico alquanto diffuso: che il cinema inglese degli Anni Cinquanta - dopo qualche segno di vitalità del decennio precedente, da Breve incontro di David Lean al Terzo uomo di Carol Reed all'Amleto di Laurence Olivier era privo d'ogni interesse artistico e culturale. Sono passati trentacinque anni. Nella storia del cinema mondiale si sono succedute le varie «nuove ondate», dalla Francia alla Gran Bretagna, dall'Italia agli Stati Uniti, dalla Germania ai Paesi dell'Europa orientale al Giappone, che hanno modificato sostanzialmente la situazione, sia dal punto di vista produttivo, sia da quello artistico. Anche la critica ha corretto non poche posizioni precedenti, ha operato a volte drastiche revisioni. Eppure quel giudizio sprezzante di Rivette è rimasto in piedi fino a qualche anno fa. Fino a quando, nella stessa Inghilterra e altrove, si è cominciato a rivedere film e autori, generi e tendenze in una diversa prospettiva, fuori degli schemi d'un certo realismo e contenutismo di maniera, che aveva dominato per decenni. Non solo, ma la cosiddetta «British Renaissance» dei primi Anni Ottanta e soprattutto la recente affermazione internazionale di due registi come Peter Greenaway e Derek Jarman, autori dei recentissimi e magistrali Prospero's Books (L'ultima tempesta) e EdwardII, hanno suscitato nella critica e nel pubblico un interesse non passeggero né superficiale. Il cinema inglese è oggi considerato una zona inesplorata da scoprire e indagare, per coglierne la ricchezza visiva e la varietà di forme e contenuti, per molti aspetti inedita e sorprendente. Così, proprio partendo dai risultati artistici d'oggi e dall'indubbia, anche se discutibile e discussa, personalità d'un Greenaway o d'un Jarman, è nata la curiosità, anzi la necessità di «rivedere le bucce» della critica del passato, di ripercorrere a ritroso la storia del cinema britannico alla ricerca di nuove linee interpretative, d'un possibile filone - non mediocre, non realistico - che in qualche modo giustificasse, o anticipasse, l'esplosione visionaria e fantasmagorica, scandalosa e provocatoria di Greenaway e di Jarman, e prima ancora d'un Ken Russell o dei Monty Python. S'è buttata nell'impresa Emanuela Martini con una Storia del cinema inglese 1930-1990, pubblicata ora da Marsilio. Una storia ricca di dati e di cifre, di nomi e di titoli di film, ma soprattutto basata su una tesi in¬ Alfred Hitchco terpretativa che tende a capovolgere quel giudizio negativo o limitativo di cui Rivette s'era fatto interprete. Una storia che considera il realismo del cinema inglese, la sua vena documentaristica, la tradizione del banale e del quotidiano soltanto come uno degli aspetti di quella produzione, non certamente il più significativo e genuino. Secondo l'autrice, la linea portante del miglior cinema britannico, la sua originalità, l'aspetto che più riflette il modo d'essere e di pensare d'un popolo, la cui immagine esterna non riesce a coglierne i caratteri peculiari, non è il realismo ma la fantasia, non il documentarismo ma il racconto libero e visionario. Non per nulla il suo libro si apre con Blackmail, l'inquietante capolavoro di Hitchcock del 1929, e si conclude con // cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, il film grottesco e irritante di Greenaway del 1989Non per nulla il filo rosso che unisce esperienze artistiche e produttive diverse e film, autori e generi cinematografici differenti (il «basso continuo» della narrazione della Martini, che è al tempo stesso tendenziosa ed esauriente, personalissima e scientificamente rigorosa) è l'opera di Michael Powell, un regista che, in coppia con Emeric Pressburger, ha fatto della fantasia e dell'antirealismo la base del suo cinema fantasmagorico ed affascinante, da Duello a Berlino (1943) a Scala al paradiso (1946), da Narciso nero (1947) a Scarpette rosse (1949) a / racconti di Hoffmann (1951). In quest'ottica, certamente stimolante e propositiva, la produzione della Hamrner con i film dell'orrore, i Dracula e i Frankenstein di Terence Fisher, è più significativa del Free Cinema col suo aspetto quotidiano e documentaristico. Ma in ogni caso anche il Free Cinema, che ha segnato la rinascita del cinema inglese a cavallo fra gli Anni Cinquanta e Sessanta con i film di Richardson, Anderson, Reisz, è visto e interpretato in chiave antirealistica, o almeno in opposizione al documentarismo britannico degli Anni Trenta. Di qui la posizione centrale, fondamentale per cogliere la complessità e la varietà del mi glior cinema inglese, che Emanuela Martini attribuisce a nocchio che uccide (I960) di Powell, un film che è diventato in questi ultimi anni un vero e proprio oggetto di culto. Una centralità che può spiegare molte cose. Perché L'occhio che uccide, definito dallo stesso Powell «un film sul cinema, negli anni che vanno dal 1900 al I960» e dall'autrice un'opera che «sintetizza i legami tra orrore, pornografia, sado-masochismo, sessualità e il semplice atto di guardare e fare cinema», è il punto di incontro fra le molte anime della società britannica, fra gli elementi discordanti d'una cinematografia solo apparentemente uniforme. Prendendo quel film come simbolo e metafora, si possono meglio interpretare il fascino e il turbamento che ci trasmettono i capolavori di Hitchcock degli Anni Trenta e quelli di Greenaway degli Anni Ottanta. Gianni Rondolino Alfred Hitchcock

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