La pillola uccide il sofà

La pillola ucciade il sofà" Clamorosa svolta nella psichiatria americana: servono gli psicofarmaci, non l'analisi La pillola ucciade il sofà" i NEW YORK L congresso dell'American Psychiatric Association - che si è svolto a Washington nei giorni scorsi - ha segnato la morte della mente ed il trionfo del cervèllo, ossia l'egemonia della psichiatria biologica sulle, terapie psicologiche e psicoanalitiche. Come cure che la chimica e la chirurgia stanno completamente soppiantando il dialogo e l'uso della parola nella cura dei disturbi e delle malattie mentali. Un cronista del «Washington Post», Joel Achenbach, ha così descritto la metamorfosi in corso: «La mente era misteriosa, fantasmatica, elusiva. Bisognava conversare con essa, saperla immaginare, cercarne gli strati nascosti. U cervello invece è soltanto un organo, come il fegato e la milza. E' carne molle. Nessuna parte nascosta. Il cervello può essere più sofisticato del fegato e più complesso della vescica, ma resta comunque un altro pezzo dell'attrezzatura biologica. Si può riparare in fretta e facilmente. Basta una pillola». I congressisti di Washington erano psichiatri, ossia medici specializzati nella cura dei disturbi funzionali della mente. Non sono i soli ad occuparsi di queste cose. Anche gli psicologi cosiddetti «clinici» (ai quali qui in America è richiesta una laurea in filosofia) vantano una idoneità terapeutica. Ad essi vanno aggiunti centinaia di migliaia di «counselors» e «family therapist» che, benché privi di titoli accademici, svolgono una diffusa opera di assistenza psicologica basandosi sulla propria esperienza e su un sommario addestramento. Per non parlare degli psicoanalisti, discendenti di Freud e dei suoi allievi, dei quali va detto che sono ormai ridotti al lumicino, sia per numero di adepti che per i continui e devastanti attacchi che vengono loro rivolti da colleghi pentiti, come Jeffrey Masson e James Hillman. L'ultimo libro di Hillman, fresco di stampa, si intitola: «Abbiamo avuto cento anni di psicoterapia ed il mondo va sempre peggio». Era inevitabile che gh' psichiatri, essendo medici e possedendo poteri specifici ed esclusivi (la prescrizione di farmaci, il ricovero forzato dei malati, le perizie penali), assumessero la guida del movimento nel campo delle malattie mentali. Con la differenza che fino a qualche tempo fa applicavano sia cure chimiche che analisi psicologiche, mescolandole ed alternandole a seconda delle scuole e delle dottrine, mentre ora sembrano orientati in una sola direzione: la biopsichiatria, ossia la teoria secondo la quale i disturbi mentali hanno un'origine biologica e vanno trattati con cure chimiche e somatiche. Farmaci, elettroshock, chirurgia cerebrale. Questa prevalenza del cervello sulla mente era visibile e palpabile perfino nelle apparenze decorative ed architettoniche del Congresso psichiatrico che si è svolto al Convention Center di Washington. In ogni sala le case farmaceutiche inalberavano i nomi torreggiami dei loro prodotti: Prozac, Xanax, Wellbutrin, Restoril, Halcion, Clorazil, Pamelor, Depakote, Haldol, e tutti gli altri ermetici appellativi di neurolettici, incielici, stimolanti, ansiolitici e sedativi. Al Prozac da solo (un antidepressivo di ormai vastissimo impiego) era dedicata un'area di esposizione grande come il salone di un albergo. Che la psichiatria abbia adottato troppo in fretta ed in misura esclusiva il modello medico e patologico della malattia mentale è un sospetto che serpeggia all'interno stesso di questa categoria di specialisti. Il tema del congresso era già di per sé un indice di inquietudine: «Valori umani ed integrazione bio-psico-sociale». Le parole sono difficili, ma il concetto è chiaro: bastano la chimica e la chirurgia per curare i malati? O bisogna tener conto anche delle esperienze personali, dei fattori emotivi ed ambientali? Un dubbio che uno psichiatra ha espresso con queste parole: «Ormai non faccio altro che firmare ricette: stiamo diventando tutti farmacisti?». E' anche interessante che il congresso abbia ascoltato, sia pure con forti resistenze, le testimonianze di quei pochi psichiatri che difendono 1 metodi della psicoterapia classica, ossia il valore terapeutico della conversazione. Il presidente dell'associazione degli psichiatri, Lawrence Hartmann, ha ammesso che in seguito ai progressi della neurologia, della psicofarmacologia e della genetica molecolare «oggi la psichiatria tiene meno conto degli aspetti psicologici e sociali di quanto facesse venti anni fa». E' giusto? E' sbagliato? C'è molta incertezza e confusione. Alla tribuna è salito perfino Scott Peck, il più noto esponente della psicoterapia religiosa, il quale va sostenendo che il messaggio spiri¬ tuale è la miglior cura delle malattie mentali: una terapia può funzionare soltanto «se è un atto d'amore». Non c'è alcun dubbio che la stragrande maggioranza degli psichiatri americani ha oggi fiducia solo nei farmaci e nelle tecniche somatiche, tanto che ha riportato in auge non solo l'elettroshock (viene somministrato a circa 100 mila persone in un anno) ma perfino la psicochirurgia, abbandonata venti anni fa nelle forme brutali della lobotomia ma riproposta ora con una diversa definizione - si parla di cingolotomia (cingidotomy), dal nome di una minuscola struttura cerebrale - e con la promessa di precisione dei bisturi elettrici e del laser. Lo psichiatra tipico è un professionista disposto anche a concedere i rituali 45 minuti di colloquio ai suoi pazienti (per i qua¬ li incassa una media di 150 dollari, pari a 180 mila lire), ma è in cuor suo convinto che il solo rimedio efficace.siano le pillole che egli prescrive. Egli è pronto a ripetervi che senza questo campionario di farmaci - dai neurolettici per' la schizofrenia ai triciclici ed al Frozak per la depressione - gli ospedali sarebbero gremiti di malati intrattabili: perché se là psichiatria chimica non è riuscita a garantire guarigioni complete per molte malattie mentali, ha però mitigato i sintomi più gravi e drammatici consentendo in tal modo a milioni di persone di condurre una vita quasi normale. Anche l'elettroshock -[ricorderete il romanzo-accusa di Ken Kesey e l'omonimo film Qualcuno volò sul nido del cuculo - viene oggi giudicato un rimedio «utile» contro le depressioni gravi da oltre il settanta*per cento degli psichiatri americani. Nei corridoi del congresso di Washington si aggirava furente il dottor Peter Breggin, l'ultimo dei grandi nemici della biopsichiatria, erede diretto della controcultura degli Anni 60. Nel suo ultimo libro - Toxic Psychiatry, un tomo di 500 pagine pubblicato dalla St. Martin Press di New York - egli sostiene che non solo le pillole non sono di alcun giovamento ai malati mentali, ma addirittura risultano nocive nella maggior parte dei casi. Breggin proclama che l'origine biologica di queste malattie non è stata ancora provata e che i continui trionfali annunci che appaiono sui giornali (scoperto «il gene», identificati «i neuroni» difettosi) vengono regolarmente smentiti o si rivelano pure congetture. E dunque, non esistendo cause somatiche chiare e riconosciute, è sbagliato imbottire i malati di pillole venefiche. Meglio un «placebo» (ossia una preparazione farmaceutica priva di ogni sostanza attiva ed usata solo per il suo potere di suggestione), che avrebbe gli stessi effetti positivi, senza avvelenare l'organismo. Ora è vero che le statistiche possono provare tutto ed il contrario di tutto, ma è indubbio che il convincimento prevalente di medici e malati è che molti farmaci sono efficaci e alcuni risultano addirittura «miracolosi». Perciò ha buon gioco il professor Thomas Balantine (un famoso neurochirurgo di Boston) nel replicare che nella storia della medicina compaiono molti farmaci utili, anche se misteriosi nella loro azione: «Se noi respingessimo un trattamento chimico solo perché non sappiamo in che modo funziona, dovremmo rinunciare perfino all'aspirina. Non ne conosciamo i meccanismi. Ed è senza dubbio una sostanza fortemente tossica, in molti casi pericolosa. Eppure accettiamo che venga venduta al di fuori di ogni controllo medico». Molti psichiatri sono disposti ad ammettere che alcune accuse loro rivolte sono giuste o comunque non prive di fondamento: è vero per esempio che lo psichiatra di più recente formazione ignora gli aspetti emotivi e sociali della malattia mentale, che non sa ascoltare e non sa comunicare con il paziente, che si forma su libri e riviste che «somi- gliano sempre più a testi di chimica», in una parola che riduce la complessità della mente e delle sue disfunzioni ad un puro fatto biologico e si illude che la «scienza» possegga sempre la risposta giusta. Una risposta sempre tecnologica e mai spirituale... Tutto questo è vero. Ma il fatto è che l'abnorme diffusione di una psicoterapia d'accatto quella per intenderci che attribuisce tutte le colpe «alla mamma» o ai «genitori» ed esorta i pazienti a riscoprire «il bambino che sta dentro di noi» - ha reso sempre più scettici i pur generosi e creduli americani. I quali argomentano che se non si sa cosa è la schizofrenia o la depressione, conviene per lo meno astenersi dal colpevolizzare i familiari dei inalati. E se gli psicofarmaci, ancorché per vie inesplicabili, rendono più vivibile la vita dei malati, è bene accoglierli con sollievo guardingo, ma pur sempre con sollievo. La grande debolezza dei critici della biopsichiatria è che, dopo aver demolito il loro nemico, non hanno gran che da offrire come alternativa. Prendiamo il libro di Breggin. Le ultime cinquanta pagine sano dedicate alla difesa della psicoterapia, in tutte le sue molteplici forme ed incarnazioni, comunque come «terapia della parola». Ma, sprovvisto ormai delle pretese scientifiche della psicoanalisi freudiana,, cosa offre oggi il «terapeuta della parola»? Breggin ci presenta il ritratto di un personaggio suggestivo, ma assai nebuloso: un amalgama tra il sacerdote, l'educatore, il moralista, comunque una creatura straordinaria capace di donare calore umano, comprensione, perfino amore. Dove stanno questi meravigliosi psicoterapeuti? Come individui possono anche esistere, qua e là, comunque in numero insufficiente. Ma come professione? Alla fin fine anche Breggin deve riconoscere che la psicoterapia «è qualcosa di più simile ad una religione che ad un trattamento medico» ed approda alle conclusioni alle quali era già approdato Jeffrey Masson nelle sue invettive contro la terapia freudiana, e cioè che non si può sapere chi è un buon terapista e chi non lo è e neppure è possibile selezionare ed addestrare gli adepti per la semplice ragione che la capacità di ascoltare e di capire i pazienti - ed addirittura di «amarli», come prescrivono gli spiritualisti alla Scott Peck - non può essere insegnata. E dunque è sbagliata l'idea stessa di ima professione che si proponga di guarire la mente umana. Gaetano Scardocchto Torna in auge l'elettroshock, perde la mente, vince il cervello

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