Arrabal: «Sono un Don Giovanni porcaccione» di Sergio Trombetta

Arrabal: «Sono un Don Giovanni porcaccione» Arrabal: «Sono un Don Giovanni porcaccione» Nel suo teatro la Spagna anarchica: lo traduce Verdiglione |t] TORINO ■ ELLA mia vita mi sono n suicidato tante volte. Il ■ suicidio è un momento 11 sublime. Mi sono suicidato quando ho scritto una lettera a Franco perché permettesse che si proiettassero i miei film e lui ha fatto mettere bombe in quei cinema. Ci ho riprovato quando ho scritto a Castro per protestare contro la repressione dei dissidenti a Cuba e, sarà un caso, le mie commedie sono state tolte dalle programmazioni di molti Paesi, Italia compresa. Ho ripreso in considerazione il suicidio quando ho difeso Armando Verdiglione ingiustamente imprigionato, vittima della cultura stalinista, quando Moravia per telefono mi diceva che era meglio lasciar perdere. Mi sono ancora suicidato quando negli anni bui di Praga ho difeso un letterato anche lui in carcere, Vaclav Havel, mentre il resto della delegazione francese tentava di dissuadermi». Ma questi ultimi due suicidi sono andati meglio a Fernando Arrabal, il multiforme genio teatrale spagnolo. I suoi lavori, spiega, ora sono in scena a Praga, mentre Verdiglione gli ha appena pubblicato presso la sua casa editrice Spirali il primo volume di Opere, presentato sabato pomeriggio da Fogola, un po' nell'ambito del Salone del libro e un po' no: perché Fogola ha lo stand al Salone, ma Spirali non ce l'ha per protesta. Presenti Arrabal, la direttrice del Centre Culturel Francais di Torino Nicole Arrous e Armando Verdiglione. Cittadino del mondo, residente a Parigi, innamorato di Kafka, Artaud e Breton, anarchico e surrealista, fondatore del movimento panico con Topor e Jodorovsky, rappresentante di quell'aspetto magniloquente, épateur e barocco della cultura spagnola, Arrabal compie 60 anni e ringrazia la Spagna. Ai tempi di Franco lo ha perseguitato e sbattuto in prigione, ora, nell'occasione del suo sessantesimo compleanno, organizza l'Expo di Siviglia. Ma poi ci ripensa, Arrabal: «Con l'Expo la Spagna celebra uno dei momenti più brutti della sua storia: l'anno in cui ha dato il via alla colonizzazione dell'America e si è mutilata di due presenze fra le più vive della sua società: i musulmani e gli ebrei». E aggiunge: «All'Expo il padiglione migliore è quello italiano. Avete capito alla perfezione lo spirito dell'iniziativa: quel padiglione è orrendo. Comunque non è certo l'Expo il vero volto di Siviglia». Quale sarà allora il volto vero di Siviglia? «Quello del "Burlador de Sevilla", il Don Giovanni descritto da Tirso de Molina. Un signore piccolo, grasso e porcaccione, un po' come me, che ha passato tutta la vita in un convento di Madrid che si trova nella stessa strada dove io ho vissuto per diciassette anni. E tutto quello che non poteva fare nella realtà, ma viveva nella sua immaginazione, Tirso de Molina lo ha descritto nella vita di Don Giovanni». Una figura fondamentale anche nella vita di Arrabal: «Avevo nove anni, era la Settimana Santa, tutti i teatri erano chiusi, l'unica cosa che si poteva rappresentare era il Don Giovanni e proprio quello fu il primo spettacolo che vidi. A casa cercai di rifarlo e di lì nacque il mio amore per il teatro e la rappresentazione». Un teatro, il suo, che in Francia è stato servito da grandi registi, ad esempio Lavelli per «L'architetto e l'imperatore di Assiria», ma che in Italia è stato poco rappresentato. Anche se lui con attori italiani ha lavorato, una per tutti Mariangela Melato, nel '73 nel film L'albero di Guemica. Di chi la colpa? Di un establishment culturale che gli è nemico? «I teatri stabili non rappresentano la realtà italiana vera e viva, loro pensano ad altro. La linfa teatrale scorre invece fra le compagnie piccole e d'avanguardia che continuano a mettermi in scena». Sergio Trombetta Fernando Arrabal ha presentato da Fogola le sue opere teatrali pubblicate da Spirali