GRETA segreta

GRETA segreta Pensieri, sentimenti, finzioni: gli ultimi anni della divina Garbo svelati da un giornalista svedese GRETA segreta 11 sono periodi in cui pas-. I < so giorni e giorni a cam1 minare avanti e indietro 1 i nella mia stanza, parlari_5Aldo da sola. Tanto che una volta, quando mandai a chiamare il medico del paese perche mi visitasse, non entrò perché pensò che avessi compagnia. Era un uomo così pieno di tatto che se ne andò via. Ma non c'ero che io, a parlare con me stessa». Era il 1985, e l'uomo che raccoglieva questa confessione di solitudine da parte della più misteriosa delle grandi dive di Hollywood era un giornalista svedese in pensione, che con la moglie stava trascorrendo l'agosto all'hotel Pardenn di Klosters, nel Cantone dei Grigioni. Là, con molta discrezione, Sven Broman si era presentato all'anziana signora registrata sotto il falso nome di Harriett Brown. E là, per tre estati, nel corso delle lunghe passeggiate insieme con lei, ne ha raccolto i ricordi e le confidenze, che ora pubblica nel libro Conversations with Greta Garbo, appena uscito in America per i tipi della Viking. Un libro educatamente indiscreto che riesce dove tutti hanno fallito: carpire i pensieri c i sentimenti della più enigmatica delle grandi dive, dopo quasi mezzo secolo di silenzio. Broman l'aveva notata una delle rarissime volte che la Garbo era scesa a mangiare sola al ristorante dell'albergo. «Vorrei poter portare i suoi saluti alla Svezia» le disse chinando il capo per presentarsi. «Lei è svedese...» gli rispose lei altera, ma incuriosila. Per più di trent'anni - gli raccontò con diffidenza - era venuta in quell'albergo sulle Alpi svizzere e aveva • camminato nella più assoluta solitudine sui sentieri intorno a Klosters, al lago Davos, a Monstein. Era salita in funivia fino ai picchi più alti e si era seduta da sola a contemplare quell'incomparabile panorama. E, soprattutto, non aveva mai sentito il bisogno di nessuno. ^- Prigioniera nel suo letto Non era un esordio incoraggiante, ma Broman, che pochi anni prima aveva scritto una biografia della diva aveva studiato a lungo il suo soggetto, ed era preparato ad affrontarne gli umori. Sapeva di non dover sfiorare mai il pettegolezzo, di non dovere mai fare domande sul suo passato. Doveva lasciare che scegliessc lei quando pt.lare. In albergo scoprì presto che per la Garbo mangiare da sola in camera era una necessità, per non attrarre curiosi al ristorante. Rimaneva spesso prigioniera del suo letto, a fissare con lo sguardo la tappezzeria per lunghe ore. Aveva 79 anni ed era come ce l'hanno mostrata le sue ultime immagini rubate. Severa, sempre in pantaloni e maglione a dolcevita, con i capelli lisci po- co curati, che tagliava da sola. Le rughe fittissime sui lineamenti superbi, solo un po' di rossetto sulle labbra. Mai una collana, mai una spilla, solo la Chevalière con lo stemma dei suoi amici Wachtmeister e un grande orologio d'oro maschile. Senza malizia, diceva al giornalista di non ricordare più nulla dei suoi anni d'oro. Ma poi imprevedibilmente si apriva: «Quel tempo è così remoto da me, quassù sulle montagne. E' come se parlassi di un'altra persona» diceva scandendo le frasi brevi, secche. «Ero molto ignorante. La gente diceva che ero viziata. Forse è vero, ma non potevo modificarmi. Sognavo di essere un giorno padrona della mia vita. Ho visto tante tragedie a Hollywood: non c'erano soltanto feste. E poi non ero una vera attri- ce, non avrei mai potuto recitare in un teatro». Per questa insicurezza - si chiedeva il giornalista - la Garbo si era ritirata dalla scena a 36 anni, nel 1941? Per questo aveva stracciato più di 30 contratti che le inviarono allora i produttori? «La mia fortuna era fondata sulla mia giovinezza», gli rispondeva lei, «sull'apparire levigata. E' stato davvero un bene che mi sia fermata in tempo... Sono invecchiata in fretta. Succede, in America. Perciò mi piace venire a Klosters. Quando respiro quest'aria sento che il tempo si ferma». Con il bastone, su cui brillava una targhetta d'argento con inciso «E.R.R.» (un regalo dei Rothschild), e il cappello per proteggere la pelle del viso («Credono che mi dia delle arie, ma sono stata operata di cancro alla pelle del naso»), camminava ogni giorno per i sentieri di montagna, perché quella, diceva, era la sua cura contro la depressione. «Quando arrivai in America raccontava sedendosi a riposare - non sapevo nulla di quel Paese. E nella mia ignoranza pensavo che New York assomigliasse a Sanremo, con tanti begli alberi e aiuole di fiori». Era nata nel 1905 in un paesino vicino a Stoccolma, poverissimo. E aveva fatto solo le elementari. Il padre era morto giovane, la madre lavorava come donna delle pulizie in una fabbrica di marmellata. Quando la figlia trovò un lavoro di commessa in un grande magazzino quasi scoppiò dalla gioia: un lavoro così, per Greta, era «un paradiso». Fu il regista svedese Mauritz Stiller a portarla con sé a Hollywood nel 1925. Scese dal treno pallidissima e un po' grassoccia, lo sguardo stupito sotto le lunghissime ciglia. Stiller le insegnò a dire in inglese «sono una povera ragazza svedese» e «Dio benedica l'America», e le prese una stanza in un albergo modesto. La sera poteva andarlo a trovare soltanto dopo che gli altri avevano finito di mangiare. Le lasciavano un po' di spinaci e una fettina di limone. Rimpiangeva di non aver recitato con Bergman, confessava a Sven Broman. E anche con Chaplin. Avrebbe voluto incontrare Gorbaciov, per parlare con lui della pace. «Io non sono timida» gli spiegava. «Non ho paura degli sconosciuti, mi piace parlare con gente che non conosco. Solo, non mi interessa affatto la vita pubblica. Sono il contrario di lei, signor Broman: non sono affatto curiosa». C'era un sottile disprezzo per i giornalisti, forse perché per lei avevano inventato più di 700 fantomatiche nozze. Ma il giorno che il direttore dell'hotel Pardenn le mostrò un articolo tedesco in cui si diceva che stava di nuovo per sposarsi si illuminò. «Non è mai troppo tardi, signor Broman», lo salutò allegra. «Sono ancora una che riceve delle proposte». Non aveva sposato né il celebre direttore d'orchestra Ixsopold Stokowski, con cui era romanticamente fuggita nel '38 a Ravello, né quel George Schlcc a cui rimase legata per vont'anni, e che la lasciò con un telegramma al Grand Hotel di Stoccolma (sua moglie non gli concedeva il divorzio). Consapevole che la solitudine le dava mistero e fama, la Garbo si rinchiuse in un mito che presto si trasformò in un complesso, in un'idea fissa. «Non mi è mai dispiaciuto essere indipendente, è stata la mia scelta» insisteva con il suo accompagnatore rientrando la sera in albergo. «Ma ora rimpiango di non aver vissuto la mia vita diversamente. Non c'è nulla che mi piaccia di più che vedere una vecchia coppia per la strada. Non c'è bisogno di essere sposati, ma vuol dire molto avere un compagno per la vita... lo non ne ho uno... E ne ho rimorso». Conducendola al bar, Sven Broman provava a farla ridere ricordandole la sua prima battuta in un film sonoro, Anna Chrislie: «Dammi un whisky con ginger ale, baby, e non essere avaro». «Se l'immagina una battuta più stupida di questa?» gli rispondeva lei stando al gioco. «Mischiare whisky e gazzosa! Sono cose che non si fanno, signor Broman». Non ho mai letto quello Shakespeare Fu dopo la terza estate passata insieme a Klosters che la Garbo decise di aprire la sua casa di New York al giornalista e a sua moglie. «A nessuno è mai concesso entrare qui» ripeteva enfaticamente, mentre li introduceva in un immenso soggiorno a elle, che guardava l'East River e Long Island. Era una stanza piena di oggetti, di vasi, di quadri, di mobili, ma nessuna fotografia. Molti libri, invece, rilegati. Broman si mise a osservare un volume di Thackeray, e poi uno di Shakespeare. «Non li ho mai letti», lo fermò l'attrice. E se ne vergognava. Così come diceva di vergognarsi di tutti i film che aveva fatto, con l'eccezione di Ninotchka. Anche se le piaceva raccontare di quando Churchill le disse che la Regina Cristina ora uno dei suoi film preferiti, il solo a fargli ritrovare un po' di pace sotto i bombardamenti a Londra. Sapeva tutto del suo fascino, naturalmente. Sapeva di illuminare con la sua presenza la scena, di portare sullo schermo un'idea platonica della bellezza, irraggiungibile, sessualmente indefinibile e astratta. Ma la vanità non le impediva di guardare con superbo disprezzo ai trucchi, le ipocrisie, le mistificazioni di Hollywood. Fu probabilmente per metterla alla prova che una sera Sven Broman la sfidò a ritrovare un po' di emozione nel ricordo di una celebre scena d'amore nella Regina Cristina. Quella in cui lei giace supina e John Gilbert fa ondeggiare sopra il suo viso un grappolo d'uva che lei cerca di afferrare con le labbra. Era stato un evento, a quei tempi, e lo stesso giornalista ne era ancora rapito. «Sa, signor Broman, quella scena mi ha insegnato una cosa - gli rispose la Garbo, guardandolo come da un abisso -: se vuoi proprio mangiare dell'uva, non c'è nessun bisogno di stare sdraiata supina sul pavimento». Livia Manera «Non ho mai sentito il bisogno di nessunoIn solo rimpianto: «Non ho lavorato con Bergman e Chaplin» GRETA segreta «Non ho mai sentito il bisogno di nessunoIn solo rimpianto: «Non ho lavorato con Bergman e Chaplin» IP*9?"- • -■- * ■ Una scena da «Regina Cristina» tra i film della Garbo il preferito da Churchill (a destra) Bergman «Rimpiango di non aver girato film con lui Avrei voluto incontrare anche Gorbaciov» disse la Garbo