«Basta, tornatevene a Roma»

«Basta, tornatevene a Roma» Urla e spintoni dinanzi alla camera ardente: «Non portateli nel Palazzo dei veleni» «Basta, tornatevene a Roma» Palermo, politici accolti da fischi e insulti PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Che cosa raccontarvi prima: della camera ardente allestita nel palazzo da cui Falcone fu costretto a fuggire? Delle banconote sventolate in faccia ai politici? Delle grida di «tornatene a Ro-. ma» lanciate a chi oggi può essere Presidente della Repubblica? O magari del pianto di giovani agenti, della rabbia, dei lamenti delle vedove, degli applausi alle bare, e poi di comunicati, appelli, esortazioni, esecrazioni, scioperi, lutti cittadini? Che cosa raccontarvi ancora: di quanti oggi scuotono la testa e dicono «se n'è andato il miglior giudice che la Sicilia avesse mai prodotto»? Di quelli che lo avversarono con tutti i mezzi ed oggi portano la sua bara? Di chi proclama «bisogna seguire il suo esempio» e poi torna a barricarsi dietro la scrivania? O di un vescovo che per i funerali di oggi prepara l'ennesima omelia, inutile e disperata? No, meglio fermare lo sguardo su un corteo e un cratere. Anzi, «sul» cratere: quella spaventosa, nera voragine che dall'altro ieri è entrata non soltanto nel frasario, ma anche nella psicologia di questa città. Ha 3 metri di profondità, 13 di diametro - sta spiegando solerte un funzionario. Sfregia l'autostrada all'altezza di Carini, l'immagine di Palermo da un lato all'altro. Rimanda una sensazione non solo di morte ma anche di protervia, di potenza assassina. Scava un cratere anche sotto quel che restava dell'antimafia. Duecento metri più in là, ai margini di un uliveto, s'intravede un'auto annerita: era quella della scorta. Più vicini, i due tronconi della «Croma» di Falcone. Sul fondo, un agente della scientifica raschia polvere-d'esplosivo. Tutt'intorno, le Autorità annuiscono, gravi. Hanno voluto fermarsi subito qui,e gli uomini giunti da Roma, bloccando la fiumana di auto dirette da Palermo verso questo spettacolo orrendo, e poi verso il mare. Pochi minuti, poi il corteo dei politici riparte: c'è Giovanni Spadolini, ci sono Claudio Martelli e Vincenzo Scotti, il capo della Polizia ed il comandante dei Carabinieri. Il serpentone ululante è composto da 30 auto. Il calcolo delle scorte, fatelo voi. Sarà anche il contrasto fra le povere difese concesse al giudice e il mastodontico apparato che adesso attraversa Palermo a dare origine ai primi fischi, alle prime grida. Ma, anche prima, che pena, che vergogna in questa enorme camera ardente; che rabbia veder scorrere al primo piano del tribunale, intorno ai supporti preparati per le cinque bare, le stesse facce che con quattro addobbi pensano di aver trasformato in sacrario il «palazzo dei veleni». In un angolo c'è Giuseppe Ayala, seduto, che piange: «Falcone non era preoccupato, soprattutto negli ultimi tempi. E pensare che decine di volte mi aveva rimproverato perché commettevo imprudenze, mi sottraevo alle scorte...». Ci sono Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino, Piero Grasso, gli amici. E poi il capo della Procura Giammanco, Giusto Sciacchitano. Tutti. «Non è un avvertimento rivolto ai giudici, ma un messaggio alla gente. La mafia dice: «Vedete? Possiamo fare quel che voghamo...». «Tutti vorremmo gettarci nelle indagini, ma forse è meglio che ad occuparsene sia Caltanissetta. Noi saremmo stati troppo coinvolti...». iiTutt'intors: no, accalcate nel corridoio e fuori, lungo le scalinate del palazzo, fino alla piazza, tre, forse quattromila persone che osservano, commentano, aspettano. Falcone, Falcone, il migliore di tutti noi, l'uomo nel cui nome ricompattare le fila, proseguire la battaglia... Quanta retorica nella pioggia dei commenti. In quasi tutti, almeno. C'è qualcuno che, viva la faccia, almeno risparmia ai presenti questa pietà pelosa. E' appoggiato al bancone del bar, Alberto Di Pisa, prende il caffè con due avvocati. Partecipa al lutto, certo, ma almeno ha il buon gusto di non uscirsene - proprio lui, il presunto «corvo», l'uomo che Falcone sospettò di aver tramato per delegittimarlo - in dichiarazioni di circostanza. Come ha saputo della strage? «Pensi che l'altro pomeriggio il magistrato di turno in Procura ero io... Per qualche attimo, prima di cogliere le dimensioni dell'accaduto, ho pensato che condurre l'indagine sarebbe toccato a me». Nelle infinite letture delle storie di Palermo pare che ogni volta la tragedia debba nascondere uno sberleffo. Pensate, un'indagine su Falcone affidata all'uomo che da Falcone si sentiva perseguitato. Poi, però, la tragedia si è delineata, dottor Di Pisa, si è capito che dell'indagine si sarebbero occupati i giudici di Caltanissetta. Lei, cos ha provato? Attimo di silenzio, sguardo glaciale: «Lei cosa pensa?». Che non tutti, qui e adesso, hanno la forza di condurre la polemica su toni così smorzati. Guardate cosa sta succedendo lì fuori. Arrivano le bare, c'è una calca, volano spintoni. C'è un gruppo di agenti in borghese, sulla scalinata, che si è messo dinanzi alle bare e non vuole che vengano portate in tribunale. «State fermi, siete impazziti?». Gli ufficiali stanno tentando di calmare gli animi. «No, lì dentro non devono andare...». Si tratta concitatamente, poi gli agenti la spuntano. Saranno loro a porta¬ re dentro i «loro» morti. Entrano in gruppo, con l'aria stravolta, tutti hanno al braccio una grande fascia nera. Parte il primo applauso. Un applauso che si fa scrosciante, commosso, e poi insistente, e poi ostinato, e poi rabbioso via via che i cinque feretri vengono deposti. Il primo a entrare è quello di Francesca Mondilo, la moglie del giudice, poi quello di Falcone. Sulle bare di Vito Schifarli, Antonio Montinoro e Rocco Di Culo sono posati i berretti da agenti di polizia. Su quelle del giudice e della moglie qualcuno stenderà due toghe. Applausi; applausi come ricordo, come protesta, applausi come ribellione. Ci sono giovani agenti che singhiozzano ricordando i colleghi, i genitori dei tre agenti uccisi che cominciano a entrare, sorretti. Poi, l'acclamazione si spegne, comincia ad alzarsi un brusio, una voce di don¬ na grida: «Vattene!». Lo scomodo ruolo di avanguardia è toccato a Giovanni Galloni, vicepresidente di quel Csm che poche settimane fa aveva «bocciato» la candidatura di Falcone alla Superprocura. Lui spiega ai cronisti: «Nessuno ha mai messo in discussione le capacità di Falcone», ma le grida si moltiplicano: «Vigliacchi, andatevene». Parte l'ordine di rinforzare i cordoni di polizia. Arriva Giorgio La Malfa, che attraversa quasi indenne le due ah di folla anche perché, ad accompagnarlo, c'è Giuseppe Ayala, neodeputato del pri. «Ayala, torna a fare il giudice da noi!», grida una voce. Parte un breve applauso. Ma ecco altra agitazione, ecco partire altri insulti. E' arrivato Spadolini. Sono arrivati Martelli e Scotti. Sono arrivati gli alti ufficiali. Un codazzo di addetti stampa tenta mal- destro di distribuire comunicati di cordoglio. La tensione è troppa, nessuno fa più distinzioni fra chi appoggiava Falcone e chi no, fra chi rappresenta un partito e chi lo Stato. Il grido si fa martellante. «Buffoni, Sciacalli, Assassini. Tornatevene a Roma. Andatevene. Qui non vi voghamo». Qualcuno lancia monetine, altri sventolano banconote in direzione dei politici. Non è che sia proprio una protesta spontanea, la sensazione è che in un certo settore ci sia chi ha preparato slogans e cori. Ma anche se qualcuno tenta di organizzarla la protesta è violenta, cruda, reale. Circondato da uomini dei servizi di sicurezza, Giovanni Spadolini si trova di fronte la giovane vedova di Vito Schifani che gli chiede, piangendo: «Cosa avete fatto per aiutarlo, cosa avete fatto per proteggerlo?». Il presidente del Senato non riesce a rispondere, le tocca una spalla, tenta di consolarla. La pressione della folla si fa sempre più minacciosa. Gli ufficiali corrono su e giù per rinforzare i cordoni di protezione. Toccherà seguire un altro percorso, ai politici, per tornare alle auto e quindi a Roma. Prima una breve riunione al primo piano, lontani dai clamori, poi l'uscita da un corridoio che consente loro di evitare il ritorno attraverso quella specie di forche caudine. Gli insulti toccheranno tutti ai siciliani (Mattarella, De Luca, Coco, Riggio) che non hanno potuto godere delle stesse attenzioni: escono a testa bassa, le espressioni tesissime, quasi votati al sacrificio, offerti all'esecrazione di... Già, di chi? Ecco cos'era, a suonare ancora una volta incomprensibile in questa tragica mattina palermitana. Ecco lo stridore che ci sembrava di avvertire sullo sfondo, ecco a cosa si agganciava lo smarrimento di fronte alle solite, molteplici possibilità di lettura di ogni momento che questa città vive. Questa mattina, arrivando sul luogo della strage, sull'autostrada avevamo visto migliaia di macchine. Una fila ininterrotta: tutti a passo d'uomo, sotto un sole già rovente. Tutti diretti al mare, come se nulla fosse accaduto, eppure passando lungo un'autostrada che si sapeva paralizzata per vedere quella cosa lì, il Cratere. E solo adesso viene in mente una domanda. Ma dove sono tutti gli altri? Qui dentro, qui intorno, fra i corridoi e le scalinate del tribunale ci saranno tremila persone. E tutti gli altri? Tutti i palermitani sdegnati, impauriti? Tutto il resto di quel milione di persone che in questa città sente l'alito della mafia addosso? Guardiamoli in faccia, questi tremila. Sono quelli delle fiaccolate, delle periodiche marce. Quella stanca, irriducibile pattuglia. Anche oggi, sempre gli stessi. Giuseppe Zaccaria Banconote e lancio di monetine per contestare i ministri La protesta non ha risparmiato nemmeno il presidente Spadolini I giudici: «E' un messaggio mafioso alla gente: vedete possiamo fare quello che vogliamo...» La camera ardente allestita al Palazzo di giustizia In basso: una folla di migliaia di persone ha reso omaggio alle salme di Falcone, della moglie e degli uomini della scorta Spadolini, presidente supplente della Repubblica, ieri a Palermo