Svelò il patto mafia-politica e tentarono di emarginarlo di Marcello Sorgi

Svelò il patto mafia-polìtica e tentarono di emarginarlo L'ultimo incontro con il giudice assassinato: «Continuo a lottare, non sono imboscato» Svelò il patto mafia-polìtica e tentarono di emarginarlo PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Avevo incontrato Giovanni Falcone mercoledì pomeriggio a Roma. Era un po' che non ci vedevamo: per via delle elezioni, dell'insediamento delle Camere e poi della tormentata successione di Cossiga, si era un po' diradata la consuetudine degli incontri settimanali per parlare dei suoi editoriali su La Stampa. Falcone aveva chiesto di sospendere per qualche tempo la sua collaborazione al momento della candidatura alla superprocura. Gli sembrava una questione di stile evitare che i suoi articoli potessero dare l'impressione di una sorta di campagna elettorale. Alle rimostranze mie e del direttore aveva risposto così: «State tranquilli, tanto lì non mi ci mandano. Ma dovranno trovare una buona ragione per tagliarmi fuori. E così non si potrà più dire che Falcone s'è imboscato a Roma perché s'è spaventato». La paura, la bomba, le conseguenze di quel primo attentato fallito, tre anni fa, ricorrevano spesso nelle nostre conversazioni. E anche mercoledì, fu inevitabile tornarci su. Nel pomeriggio estivo di mercoledì, decidemmo di uscire dall'ufficio per conversare più tranquillamente. Nell'atrio del ministero, mi avvicinai alla macchina, feci per salire dietro come le altre volte, ma un agente della scorta mi fermò. Al- la guida, stavolta, c'era Falcone. Accanto, io. Dietro di noi, due agenti col mitra in mano. Era così: dall'omicidio Lima in poi il pericolo e il sistema di sicurezza si erano rafforzati. All'inizio, come succede spesso nelle conversazioni fra siciliani, il silenzio, o almeno certi silenzi pesavano più delle parole. Le mie domande, anche quelle di circostanza, spesso restavano senza risposta. Poi, piano piano, si cominciava a parlare. «Non mi hai detto niente di Gotti, pensavo che ti saresti fatto vivo», avevo introdotto io, accennando alla condanna del capo di Cosa Nostra americana. «Formidabile! - si era entusiasmato Falcone -, dimostra che quando ci sono i mezzi, e la gente è seria, si vedono i risultati». «Sai - continuava il racconto ne avevo parlato con il capo dell'Fbi l'ultima volta che sono stato in America. E' la terza volta che ci provate, siete sicuri di incastrarlo?, gli avevo chiesto. E il capo deH'Fhi: "La terza? Veramente è la prima, per noi le altre due non contano". E intendeva dire che un'indagine della polizia federale è più seria e più libera dai condizionamenti politici locali. Per questo ottiene il risultato». Ma in Italia - domandai - adesso che c'è la Dia, non si potrebbe tentare qualcosa di simile? Falcone mi rispose con un sorriso: «Certo, c'è la Dia, e dentro c'è gente seria. Ma secondo te, li lasceranno lavorare?». Qui la nostra conversazione approdava ogni volta allo stesso nodo. Io a chiedere: ma se credi che è la politica a frenare l'Antimafia, che ci stai a fare al vertice del ministero di Giustizia? Lui a rispondere: «Sai bene come la penso. Per me, il vero nemico dell'Antimafia sono le incrostazioni burocratiche, le resistenze di casta, la mancanza d'iniziati¬ va. In un certo senso, sono gran parte dei magistrati». Tu quindi non credi - insistevo - che i partiti, il governo non vogliano andare più di tanto in là nella lotta Antimafia? «La cosa più semplice - ripeteva - è dire che esiste Un "terzo livello" in cui mafia e politica s'incontrano e decidono tutto insieme. Per averlo negato, io sono stato accusato di essermi arreso. Ma chi lo sostiene non si accorge che così si disegna il ritratto di una mafiaStato invincibile e si trova un alibi per gettare la spugna e fare l'Antimafia solo a parole». E allora Lima? «E' la prova di quel che ti dico - si riscaldava lui -: Lima era ormai una specie di Gattopardo, incapace di comprendere il mondo che era cambiato attorno a lui. Non dico che in passato non avesse avuto qualche rapporto con pezzi di criminalità organizzata siciliana. Ma di quella di oggi, di Cosa Nostra Anni Novanta, non aveva capito nulla. E se si ostinava a tentare una mediazione, è morto proprio di quello». Ecco, secondo Falcone, il limite di quelli che già Sciascia aveva definito i «professionisti dell'Antimafia» era proprio questo: non capire che la nuova mafia si ritie¬ ne ormai più potente e più efficace dello Stato e delle leggi. «Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuol comandare - sentenziava -. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola». Poi, sulla strada del ritorno, c'eravamo messi a parlare di Quirinale, degli articoli che aveva in mente di scrivere non appena la successione a Cossiga avrebbe lasciato libera la prima pagina del giornale. «Ho letto vari pezzi sulla mafia cinese, ma quanta approssimazione - si era lamentato -. Si vuol dare a intendere che stia soppiantando Cosa Nostra. Eppure, sappiamo bene che non è così. Cosa Nostra ha mille vite, la batti a New York e rinasce a Philadelphia...». Philadelphia?, chiesi quando ormai eravamo sulla porta del ministero. «Sì, non lo sai che lì s'è formata una nuova colonia di emigrati di mafia. Gente giovane, feroce, selezionata per un rilancio dell'attività». Lo interruppi con una battuta: «Una sorta di 'rifondazione'?». Falcone ci pensò un attimo, poi sorrise per l'ultima volta: «C'è poco da scherzare». Marcello Sorgi Due immagini dell'attentato al giudice Falcone. La deflagrazione è stata causata da circa mille chilogrammi di tritolo

Persone citate: Cossiga, Falcone, Giovanni Falcone, Sciascia

Luoghi citati: America, Italia, Lima, New York, Philadelphia, Roma