«Mi uccideranno a costo di una strage»

«Mi uccideranno, a costo di una strage» Falcone diceva: a Palermo già troppi sono caduti per niente, l'emergenza non serve «Mi uccideranno, a costo di una strage» Il presagio dell'agguato nella sua vita sotto tiro Il PERSONAGGIO L'ONESTA7 ROMA. Non è possibile. Non può essere vero che Giovanni Falcone sia morto. Cerco di convincermene, contro ogni evidenza, come se il rifiuto potesse davvero servire ad esorcizzare la morte. La morte di un uomo onesto, forse poco adatto alle passerelle, a tratti finanche brusco, ma profondamente convinto che delle parole la mafia ha sempre tenuto poco conto, temendo i fatti. Che nel suo linguaggio volevano dire: azione e mandati di cattura. Le agenzie battono i particolari dell agguato, qualche minuto prima una telefonata da Palermo. Rino Cascio, un collega del Manifesto: «C'è stato un attentato. Proprio adesso. Falcone e la scorta, alla galleria di Punta Raisi. Lui è vivo, due ragazzi della scorta sono saltati in aria. La città sembra impazzita». Difficile trovare concentrazione. Mille pensieri si accavallano a un ritmo frenetico. Diciotto anni di ricordi affollano la memoria. Immagino un incontro con Giovanni, magari in ospedale, per dirgli: «Ma perché vai a cacciarti sempre dove ci sono guai?». Il giudice Giovanni Falcone è morto. Una riga d'agenzia e basta, sono le 19,43. Non si può più sperare. E la moglie? E' ricoverata al Civico, ancora due ore di speranza e poi sarà la fine anche per lei. Chi è morto della scorta? Poveri ragazzi. Non più di tre, quelli che gli erano rimasti vicini anche dopo il suo trasferimento da Palermo. E volevano seguirlo a Roma. Antonio Montanari, il più giovane, gli aveva detto che era disposto a trasferirsi. «Ci abbiamo sempre creduto a quest'uomo», cosi gli angeli custodi di Falcone rispondevano alle obiezioni degli scettici che con sarcasmo ammonivano: «Ma chi ve lo fa fare?». Così risposero ""anche' nel giugno dell'89, quando per .un pelo il giudice sfuggì ai candelotti di dinamite piazzati sotto le finestre della villa dell'Addaura. Già, l'attentato di Mondello. Il sorriso ironico e distaccato dei sapientoni, assertori dell'assioma che la mafia fallisce solo quando vuole sbagliare, ergo l'attentato se l'era fatto lui, il giudice, magari con l'aiuto dei servizi segreti. Gli ammiccamenti, tutti palermitani, si scontravano col pallore di Giovanni Falcone. Sì, ebbe paura quella volta. Lo ricordo perché mi colpì il suo tremore. Una notte interminabile sulla terrazza della stessa villa, martoriati da mi- f;liaia di zanzare attratte dalla uce delle fotoelettriche della polizia. Fu allora che parlò di «menti raffinatissime», mandanti dell'attentato. Passeggiava avanti e indietro per cercare concentrazione, era nervosissimo. Per la prima volta, dopo anni di conoscenza, lo vidi bere della grappa. Per la prima volta mi accorsi che possedeva una pistola. Venne l'alba, si spensero le fotoelettriche ma Falcone, tramortito per lo stress, dell'attentato contro di lui ne sapeva esattamente quanto prima. Cioè poco, tanto che l'inchiesta non ap- predò a nulla. Quella notte capii anche quanto difficile doveva essere il ruolo della moglie. Ad una certa ora Falcone disse a Francesca di andarsene. Lei voleva restare, tentò di convincerlo. Non la spuntò: andò a dormire altrove. Era guardingo Giovanni Falcone. Fino alla diffidenza. Non si fidava di nessuno, almeno mai sino in fondo. Non comunicava i suoi spostamenti, teneva per sé i programmi. Una lunga abitudine alla vita blindata gli aveva fornito la pazienza necessaria per affrontare i suoi nemici. Una sera, si era da poco trasferito a Roma, avevamo appuntamento per andare al ristorante. Come sempre, volli che fosse lui a scegliere posto ed ora. «Ti telefono», rispose. Dopo un quarto d'ora era al giornale. Solo, senza scorta, alla guida di una «127» malmessa. «Sei pazzo?». Ma lui, sereno, sorrise: «Non lo sa nessuno che sono uscito, neppure la scorta. Quale migliore garanzia per la mia incolumità?». Molti dicono che Giovanni Falcone era cambiato. No, non è vero, non mi pare. E' stato sempre lo stesso. Lo vidi per la prima volta a Palermo. Lui era da poco giudice istruttore della «squadra» di Rocco Chinnici. L'approccio non fu dei migliori: «Bene, le posso dedicare solo un paio di minuti perché ho molto da fare». E furono davvero due minuti. Ad un certo punto tagliò: «Tempo scaduto, arrivederci». E non aveva detto praticamente nulla. Non amava i giornalisti. Non li capiva, aveva difficoltà a destreggiarsi con loro. Era convinto che, per la «superficialità con cui affrontano il loro lavoro», anche se inconsciamente, finiscono per essere un varco attraverso il quale la mafia riesce a trarre vantaggi. Era timido Giovanni Falcone. La sua apparente aggressività nasceva dalla naturale ritrosia verso le persone poco conosciute. Una sola volta si lasciò andare, accettando un'intervista che andò ad arricchire una antologia degli atti del primo maxiprocesso contro la mafia. E' uno sfogo, quello, quasi profetico. Aveva intuito tutto, Falcone. Diede una descrizione perfetta di Palermo, dei Palazzi, dei colleghi, degli amici, dei nemici e della mafia. Predisse l'ostilità che gli sarebbe arrivata dopo qualche tempo, il «voltafaccia» di tanti paladini dell'antimafia. Ci tenne sulla corda, me e i colleghi Galluzzo e Lodato, per mesi e mesi. Alla fine, dopo un'estenuante via vai dal suo ufficio, diede l'approvazione e il libro potè uscire. A volte parlava dei morti di Palermo. Quanto rimpianto per quei ragazzi morti per niente. Sì, diceva proprio così: morti per niente. E ricordava il suo amico Ninni Cassare, il commissario Beppe Montana, il capitano D'Aleo, Basile, Boris Giuliano. Ogni morto un'emergenza, ma mai un programma serio, costante, per contrastare la mafia. Diceva parole dure, a volte. «All'emergenza - concludeva - preferirei un normale ma costante impegno quotidiano». Era sfuggito a due attentati. La prima volta all'Ucciardone, quando un detenuto, killer delle carceri, tentò senza successo di farlo fuori nella sala colloqui. Poi la dinamite a Mondello. Eppure non ha mai pensato di ritirarsi. Parlava molto della «sua» morte. Diceva: «Sanno che per uccidermi devono pagare un prezzo altissimo. Per farmi fuori devono ricorrere alla strage. Ma se sarà necessario, non esiteranno». Non erano guasconate. Nelle sue parole -non ho mai colto il tono della sfida. Nel pensiero della morte, come in molti siciliani, c'era il suo rapporto con la vita. Ciò non vuol dire che non avesse paura della morte. Ma soffriva di più per le ferite inferte dalle malignità. Arrivava all'eccesso di esprimere più rispetto per un mafioso assassino che per «un imbecille sputasentenze messo al posto sbagliato». Lo ferivano le «manovre» per non farlo andare a capo della Superprocura. Non più tardi di venerdì diceva al telefono: «Le cose vanno a rilento e intanto il tempo passa. Tutto vantaggio regalato alla mafia. Stiamo facendo numerosi passi indietro, la retromarcia è stata innestata dall'omicidio Lima». Lo accusavano di essere troppo «martelliamo». Di questo non si dava pace. «Io assoggettato al ministro? Chi lo dice non tiene conto di una cosa semplicissima: il progetto della superprocura è mio ed è preso dall'idea dei pool antimafia. Semmai, dunque, è Martelli che si è fatto convincere». A Palermo, si dice, bisogna morire per dimostrare di essere onesti. Lui c'è riuscito. Francesco La Licata Una confidenza a 24 ore dalla fine «Stiamo perdendo tempo nella guerra contro le cosche, dopo il delitto Lima si è innestata la retromarcia» Il giudice con il Guardasigilli Martelli. A fianco, l'ex magistrato del pool antimafia, Ayala, ora deputato del partito repubblicano

Luoghi citati: Falcone, Palermo, Roma