Gli orfani dell'EST

Gli orfani dell'EST Al Salone del Libro quindici scrittori «in cerca di identità» a convegno per il Grinzane Cavour Gli orfani dell'EST |t] TORINO i NA nuova categoria letI t era ri a è entrata ieri nel I I nostro universo culturaSi I le. Grazie, naturalmente, al Salone del Libro, col quale la cultura ormai s'identifica. Come sanno gli addetti ai lavori e gli standisti del salone, la cultura è un Moloch che genera e divora categorie onnicomprensive. Partendo dal dopoguerra e citando alla rinfusa: gli scrittori neorealisti, i poeti ermetici, gli intellettuali beat, gli sperimentalisti europei, i selvaggi italiani, i minimalisti americani. Ora è il tempo degli scrittori dell'Est. Che si sono affacciati sulla scena ormai da qualche anno, ma che ieri hanno avuto la consacrazione, come categoria per i manuali di liceo, nel convegno più importante del salone: «Letterature dell'Est: nuove frontiere per nuovi confini», organizzato dal Premio Grinzane Cavour. Dal momento in cui sono la nuova categoria letteraria, gli scrittori dell'Est sono anche i protagonisti, le vedettes. La sala A era affollatissima: accademici, insegnanti, funzionari editoriali, giornalisti e critici, fotografi, interpreti, oltre naturalmente ai lettori comuni. Grazie anche a due sponsor (il ministero degli Esteri e la SeatStet) gli organizzatori hanno fatto le cose in grande, invitando quindici rappresentanti, .degli scrittori dell'Est: quattordici signori, di età tra i 31 e gli 83 anni, e un'affascinante signora dell'ex Dar, Irina Liebman. Per inquadrare il dibattito hanno partecipato lo slavista Vittorio Strada, il polonista Pietro Marchesana Paolo Mieli, direttore de «La Stampa», e Paolo Galimberti, caporedattore a «Repubblica». Chi sono gli scrittori dell'Est? Che cosa nasconde l'etichetta? Ecco quanto abbiamo accertato, sia ascoltando gli interventi ufficiali, sia in brevi conversazioni informali. Essere scrittori dell'Est non è facile, per la semplice ragione che ci sono gli scrittori, ci sono i libri, oggi pubblicati anche dai grandi editori, non solo da quelli di avanguardia, ma non c'è più l'Est, l'Est si sta sgretolando. Come ha detto Predrag Matvejevic {Breviario Mediterraneo), che viene da Mostar e che è arrivato in Italia viaggiando con i profughi, l'Est era qualcosa (il comunismo) e non è ancora diventato qualcos'altro: «Le trasformazioni sono caricature di trasformazioni. Dalla dittatura non siamo passati alla de- mocrazia, ma alla democratura. Viviamo nei paradossi. Tutti ci dite; Mercato! Mercato! Ma in molti dei nostri Paesi mancano le merci. Come si può fare il mercato senza le merci?». In un Est senza Est, anche lo scrittore diventa un profugo. Un profugo della cultura, che ha perduto la propria identità, che non sa più orientarsi. Soprattutto che non sa orientare gli altri, i lettori. Lo ha confessato il più vecchio e il più autorevole degli invitati, lo ieratico russo Izrail' Metter {Il quinto angolo): «Una volta c'era la difficoltà di pubblicare, adesso c'è la difficoltà di scrivere. La letteratura dovrebbe essere in effetti la coscienza del popolo. Ma oggi io non so cosa dire al lettore. Lo scrittore deve avere una visione ampia delle cose, mentre noi oggi siamo al livello della folla. Oggi uno scrittore non vede la realtà più profondamente di come la vede il passeggero di un tram». Gli scrittori dell'Est erano sotto le dittature comuniste gli scrittori dei «samizdat», i libri che avevano una diffusione clandestina, o gli scrittori dei «neizdat», i libri rimasti inediti nei cassetti. Ciò definiva un'i¬ dentità, un ruolo: gli scrittori dell'Est rappresentavano il dissenso. Come dichiara l'ungherese Miklòs Hubay {Freud ultimo sogno): «Se si vive contro un potere, se si lotta contro una dittatura, lo scrittore trova facilmente la sua forma, la sua morale». Ma non è d'accordo per niente Matvejevic (che parla un ottimo italiano): «La letteratura del dissenso è molto più dissenso che letteratura. La perestrojka non ha dato una nuova letteratura». Come i lettori avranno intuito, anche se si parla di (muove» frontiere e di «nuovi» confini, perché nella cultura dei saloni tutto è sempre nuovo, dietro le quinte del convegno aleggiava una questione vecchissima: quella dei rapporti fra letteratura e politica. Il letterato, lo scrittore, che relazioni deve intrattenere con la politica? Deve sentirsi «impegnato», come si diceva una volta? «Sì - risponde il romeno Norman Man e a (Ottobre ore 08.00) -, io penso che lo scrittore sia sempre la coscienza morale del popolo, della gente. E' vero che si deve distinguere tra letteratura che inventa e letteratura che documenta, ma anche quella che inventa deve dare spazio alla testimonianza o alla denuncia». Ma gli scrittori dell'Est dovrebbero assumersi delle responsabilità nei mutamenti in corso nei loro Paesi? Dovrebbero seguire l'esempio clamoroso di Vaclav Havel, il drammaturgo che è diventato presidente dei cechi? «No - risponde Ismail Kadaré, corteggiatissimo romanziere albanese (La città di pietra) -, quando vedevo gli scrittori abbandonare la letteratura per la politica, mi sentivo tristissimo. Capisco che uno scrittore possa sentirsi attratto da qualcosa di più urgente, U fatto è che il mondo, per fortuna, avrà sempre bisógno di letteratura». E il vecchio Metter respinge la parola «politica» con una specie di ostinazione e anche di agitazione: «Odio la politica, non la capisco, non dipende da me». Un caso a sé rappresentava, al lungo tavolo del convegno, Irina Liebman {Condominio berlinese), non soltanto perché unica donna, dotata di una cascata di capelli fulvi, ma perché lei, nata a Mosca e vissuta nella Ddr, dopo l'unificazione tedesca ha diritto a una precisa identità, non è più una ex di qualcosa. Infatti è ottimista: «Io devo poter dire quello che vedo e sento: questa è la mia morale di scrittrice. Io non sono d'accordo con Metter quando dice che lo scrittore deve avere una visione più ampia dell'uomo semplice. No, non guardiamo dall'alto verso il asso. Né vediamo di più. Ma possiamo prendere sul serio, noi scrittori, quello che vediamo. Oggi possiamo avere un rapporto ravvicinato con la realtà, come nell'Espressionismo, come in Dòblin. Possiamo riprendere quella tradizione». Filosofico, scettico, si è mostrato Gustaw .Herling {Un móndo a parte e Un diario scritto di notte), l'intellettuale polacco che ha sposato Lidia Croce e dal 1955 vive in Italia: «Dobbiamo dare tempo al tempo. Il 1989, l'annus mirabilis, è ancora troppo vicino. Chi può dire quali saranno i romanzi di domani sulla realtà di oggi? In fondo, se lo si legge sul serio, Dostoevskij è uno che critica la libertà, e Gombrowicz è uno che odia la politica», E' difficile dire se il convegno ha chiarito chi sono e cosa rappresentano gli scrittori dell'Est. Tante identità, tante voci. Scrittori dell'Est forse è una metafora. O un miraggio. Magari al prossimo salone si saranno già dissolti. Secondo il ceco Ivan Klima {Amore e spazzatura), «la letteratura dell'Est non è che uno stereotipo creato dai giornalisti». Ma Cesare Cases, direttore dell'«Indice», nascosto fra il pubblico, dice soddisfatto: «Io finalmente l'ho capito, che cosa sono gli scrittori dell'Est: una succursale del premio Grinzane-Cavour». Alberto Papuzzi «Odio la politica non la capisco e non so che cosa dire al lettore» Nella fotografìa grande al centro Irina Liebman. Qui sopra, il pubblico del convegno. A destra, Izrail" Metter Protagonisti del convegno: sopra, Ismail Kadaré (a sinistra) con Gustav/ Herling, e nella foto a sinistra Pedrag Matvejevic A fianco, lo scrittore Roberto Calasso, direttore editoriale della Adelphi: «A qualcuno diamo fastidio». Sotto, Norberto Bobbio che ha partecipato a un dibattito con Alberto Asor Rosa

Luoghi citati: Ddr, Grinzane Cavour, Italia, Mosca, Torino