I PUGNI DI BELLOCCHIO
I PUGNI DI BELLOCCHIO CINEMA I PUGNI DI BELLOCCHIO Al Massimo una personale del regista piacentino POCHI nomi come quello di Marco Bellocchio evocano il clima degli Anni Sessanta, anche per via di quel titolo, «I pugni in tasca», che sembra riassumere tensioni e aspettative che caratterizzavano il periodo. Il suo primo lungometraggio, che tante discussioni suscitò nel 1965 alla mostra di Venezia, era la storia di una ribellione, una rivolta che coinvolgeva al tempo stesso Lou Castel (protagonista) e Marco Bellocchio, che esordiva imponendosi subito come uno dei nomichiave del periodo. Le sue produzioni successive sono in qualche modo condizionate dalle scelte politiche e culturali: l'adesione, nel 1968, al movimento studentesco prima e a un gruppo marxista-leninista poi. «La Cina è vicina» (1967) e «Nel nome del padre» (1971) sono film imbevuti delle lotte politiche del periodo, e ancora di più lo sono i due cortometraggi che Bellocchi dirige per l'unione dei marxisti-leninisti, «Paola» e «Vi¬ va il primo maggio rosso». Già a partire da «Sbatti il mostro in prima pagina» (1972), ingenuo giallo politico ambientato nella Milano della contestazione, appare evidente che Bellocchio è un autore da rivedere lasciando da parte le tensioni politiche. Anche perché il regista si allontana sempre più dall'impostazione iniziale, legandosi alle teorie dello psicanalista Fagioli, che assume un ruolo importante nella scelta e nell'elaborazione dei soggetti. A questo si aggiunge la sua scelta di dirigere i film in modo sempre più accademico, privilegiando il gusto della bella immagine e quelle scansioni fresche e veloci che avevano caratterizzato i primi lavori. Alcuni suoi film degli Anni '80 suscitano discussioni e scandalo (ad esempio «Il diavolo in corpo», 1986, sulla forza devastante della passione, o «La condanna», 1991, ispirato a un fatto di cronaca ma occasione per un'elaborazione sul tema dello stupro) ma nessuno convince piena- mente. Tutti i suoi film dell'ultimo decennio danno l'impressione che una grande capacità di fare cinema sia soffocata da una complessità di discorsi sovrapposta, un po' come se il cinema fosse solo un contenitore per parlare d'altro (ieri la politica, oggi la psicoanalisi). Il Museo del cinema dedica a Marco Bellocchio una personale al Massimo. La retrospettiva comprende, oltre ai titoli già ricordati, anche altri lavori del regista nato a Piacenza nel 1939 e fratello del saggista politico Piergiorgio. E' opportuno ricordare almeno «Vacanze in Val Trebbia» (1980), forse il suo miglior lavoro, memorabile per quell'assalto degli indiani a una canoa che attraversa un tranquillo fiume padano, ricordandoci che anche per Bellocchio la Via Emilia e il West confinano almeno nel mondo dei sogni. Da non perdere «Matti da slegare», il documentario realizzato nel 1974 con il regista Silvano Agosti e i futuri sceneggiatori della Piovra Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Altri tasselli che contribuiscono a meglio definire la personalità di Bellocchio. Stefano Della Casa 1
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