POETI SPICCIOLI di Pierluigi Battista

POETI SPICCIOLI POETI SPICCIOLI Inchiesta: i conti in ti da Giudici a Sanguinea PBOÈMA OESIA e denaro. Versi e quattrini. Lirica e assegni. Ma come può venire in mente di mescolare carmina e pane, Dio e Mammona, ispirazione e vili affanni, Muse e «sterco del diavolo»? Accostamento impertinente, che alle orecchie dei più sensibili può suonare .. addirittura , blasfemo. Già, ma non saranno proprio i poeti i primi ad imitare i mercanti nel Tèmpio sorvegliando un po' troppo le esigenze del portafoglio anziché quelle del cuore e dell'immaginazione? A sollevare l'interrogativo è Giovanni Giudici, il quale dedica alcune pagine di Andare in Cina a piedi, (il «racconto sulla poesia» edito da E/O che sarà in libreria tra pochi giorni), al problema delle relazioni segrete che intercorrono tra poesia e «mantenimento» del poeta, scrittura e modi per sbarcare il lunario. Non che Giudici voglia rubare il mestiere all'esattore delle tasse, oppure indossare i panni del fustigatore. Eppure, con tono amabile e soave, lieve e sobriamente ironico, Giudici formula così il suo gentile rimbrotto ai poeti con il pallino del ragguardevole conto in banca: «Dura a morire è la traviente illusione di molti che scrivere (in prosa e perfino in versi) possa essere un modo di fare quattrini». Succubo della venalità, interiormente guastato dalle mitologie correnti del trionfo profano e della celebrità effimera, il poeta ossessionato dal guadagno facile finisce poi per baloccarsi nel miraggio del Genio «baciato dal successo, immerso nella mondanità, vezzeggiato da avvenenti muse, circondato da segretari, blandito da potenti editori». E invece perché non dare ascolto alle esortazioni di Coleridge che raccomandava di «non praticare la letteratura come mestiere»? Oppure seguire il consiglio di T. S. Eliot quando suggeriva al giovane che avesse voluto dedicarsi alla poesia di «cercarsi un impiego with minor responsabilities», con mansioni modeste: come le sue, al tempo in cui aveva lavorato in banca a Londra e nella marea dei suoi colleghi che nelle nebbiose e cupe mattine d'inverno si riversavano negli uffici della City? Ex cronista (il tempo della «giovanile milizia parolaia», confessa l'autore), ex funzionario dell'Olivetti nei tempi d'oro di Adriano, ex scrittore di testi pubblicitari («copy, secondo il gergo»), Giudici presenta se stesso come la perfetta incarnazione dell'impiegato with minor responsabilities: «Niente genio e sregolatezza, ma una maschera di "normalità". Non soltanto un impiego, ma una fa¬ miglia, una casa e per qualche tempo un cane: un setter, o quasi setter, al quale dedicai ben quindici stanze». E' questa, per Giudici, la condizione ideale del poeta che intenda restare «intimamente disponibile» alla poesia». Non per avere tempo libero, ma «una mente libera: libera da ambizioni mondane e dall'assillo di una carriera, da tutte le distrazioni, insomma, che.finiscono per relegare in secondo piano le scopo principale». E, invece, qual è il destino dei poeti con la mente prigioniera, schiavi del salvadanaio? Un continuo, defatigante esercizio per calibrare «benevolenze e favori, alleanze e rivalità». E Giudici allude a un modello negativo affiorato con prepotenza «in questi ultimi decenni»: «Letture di versi retribuite, conferenze e convegni, premi, possibilità di saltuarie collaborazioni editoriali, giornalistiche o radiotelevisive hanno incoraggiato in diversi giovani] l'illusione di poter diveni dei poeti (per cosi dire) professionisti». Ma davvero i poeti emersi negli ultimi decenni sono così venali, avidi, attaccati al soldo, sempre in movimento per raccattare premi e gettoni di presenza, ingordi di diritti d'autore, pennivendoli ansiosi di darsi al miglior offerente, vulnerabili ad ogni diktat editoriale, ammalati di professionismo, e persino un po' presenzialisti in tivvù? Valentino Zeichen rifiuta di riconoscersi in un simile ritratto: «Vivo in una baracca e non ricopro nessun incarico. Ho patito la fame. Non ho lavoro e nemmeno una pensione. A differenza di Giudici, che sicuramente vive con una lauta pensione». Sì, ma il presenzialismo, l'ansia di apparire, la rincorsa ai diritti d'autore? «E' vero, per sopravvivere devo apparire, e per uscire devo lottare. Sono un abile conversa¬ tore e per questo vengo invitato nelle cene importanti: è lì che mi guadagno il pane. Grazie alla mia bella presenza, alla mia capacità di sorridere e alla mia bravura nel parlare vado al Maurizio Costanzo Show. Apparire è giusto, e anche remunerativo, malgrado Giudici e il suo attonito stupore per le disgrazie del mondo». I poeti si ribellano. Replicano che con i loro diritti d'autore, decisamente più magri di quelli percepiti dai loro colleghi «narratori», non si campa. «Ogni volta è un pietire miserabili anticipi presso gli editori», dice una poetessa che vive a Milano, sempre vestita di nero, e che detesta veder apparire il suo nome sui giornali. Collaborazioni giornalistiche? I poeti ricordano che Montale, per star dietro alle esigenze del giornale, doveva ricorrere ai servigi inconfessabili di un «negro» che gli scriveva gli articoli. Premi? E viene fuori il nome di Mario Luzi che ancora non ha potuto incassare l'assegno di cinque milioni del premio Isola di Precida. Poeti sedotti dai facili guadagni? Ecco la risposta di Valerio Magre Ili: «Denaro! Capisco Giudici, ma su questo punto trasecolo. "Noi siam le tristi penne insbigottite", direi piuttosto pensando a quell'eroica Caritas letteraria che sono le riviste di versi». E poi, prosegue Magrelli, «cos'ha di più prezioso la poesia d'oggi se non la sua irrevocabile, irredimibile, plenaria povertà? Certo, in una purezza subita non c'è alcun merito, e forse il poeta attuale non è in vendita perché nessuno lo acquisterebbe. Resta comunque il fatto che, in¬ sieme con l'indigenza, ha ricevuto in dote, magra ma consolante, una specie di immunità editoriale che somiglia alla libertà. E almeno questa, ai monatti, lasciategliela». E poi chi l'ha detto che denaro e poesia siano in conflitto tra loro? «"Mi domando da tempo se il denaro sia di natura materiale o spirituale". Riesce a immaginare chi sto citando?», risponde Maria Luisa Spaziani. Non saprei. «Allora le vengo in soccorso. Si tratta nientemeno che di santa Teresa d'Avila. La quale cercava disperatamente soldi per aprire conventi. Morale: il denaro non è un male se serve per creare. E per dare la bellezza al mondo, cioè per adempiere la sua missione creativa, il poeta ha bisogno di fiori, profumi, viaggi a Venezia. Tutte cose che costano. Ma appunto, lo scopo di guadagnare è: fare soldi senza pensarci». «E invece con i diritti d'autore non si riesce a fare nemmeno un viaggio dignitoso», replica Giuseppe Conte. «Il discorso di Giudici esprime una mentalità impiegatizia, tardo-italiana, assistenziaiistica e pensionistica che mi sento di rifiutare in blocco», prosegue Conte, capofila di un ritorno alla «poesia civile», «e non capisco nemmeno per quale imperscrutabile motivo il poeta non debba tenere conferenze. Incredibile, se solo si pensa che un poeta riceve attenzione dagli editori soltanto se è consacrato e ovviamente postumo. E, poi, perché disprezzare il denaro in questo modo?». «Premesso che nutro per Giudici, che considero uno dei pochi veri maestri, una stima che rasenta la venerazione», dice invece Maurizio Cucchi, «devo dire che lui il posto fisso l'ha sempre voluto, io invece ho sempre cercato di liberarmenene». «Sono del 1945», continua Cucchi, «e i poeti della mia generazione non stanno in nessun posto e vivono senza tanti soldi. Io sono collaboratore esterno della Mondadori, fedele al mio desiderio di accettare soltanto lavori precari. Anche perché la mente non può impegnarsi su fronti così opposti come l'arricchimento e la poesia». «E' vero», aggiunge Edoardo Sanguineti, «chi è avido di denaro cerca altre strade perché carmina non dant panem ancora oggi. E se posso immaginare il nuovo romanziere che preme sul suo editore pensando anche all'aspetto economico, il poeta e l'editore sanno invece benissimo che è estremamente improbabile che si possa verificare il miracolo di un bestseller di poesia». E allora, per liberare il poeta dalle grinfie del mercato, per distoglierlo dagli affanni economici, è giusto, come ebbe a sostenere Pietro Ingrao all'indomani del caso Montale, che la collettività si assuma l'onere del sostentamento dei grandi poeti? «Il grande poeta è quello giudicato così col senno di poi», risponde Sanguineti, «e mi pare oltremodo problematico che un'ipotetica commissione sia concorde nell'attribuire a qualcuno la qualifica di grande poeta». Risponde invece Cucchi: «In linea di principio non vedo perché lo Stato può spendere soldi per il teatro e non per la poesia. Il guaio è che poi si rischia di creare una nuova figura: quella del poeta lottizzate». Pierluigi Battista Giudici. M. L. Spaziarti a destra, e, sopra, Sanguineti A sinistra Cucchi sotto, a destra Magnili POETI SPICCIOLI Inchiesta: i conti in ti da Giudici a Sanguinea miglia, una casa e per qualche empo un cane: un setter, o uasi setter, al quale dedicai en quindici stanze». E' questa, er Giudici, la condizione idea del poeta che intenda restare ntimamente disponibile» alla oesia». Non per avere tempo bero, ma «una mente libera: bera da ambizioni mondane e all'assillo di una carriera, da utte le distrazioni, insomma, he.finiscono per relegare in seondo piano le scopo principae». E, invece, qual è il destino dei oeti con la mente prigioniera, chiavi del salvadanaio? Un ontinuo, defatigante esercizio er calibrare «benevolenze e avori, alleanze e rivalità». E iudici allude a un modello neativo affiorato con prepotenza n questi ultimi decenni»: Letture di versi retribuite, onferenze e convegni, premi, ossibilità di saltuarie collaboazioni editoriali, giornalistihe o radiotelevisive hanno inoraggiato in diversi giovani] illusione di poter diveni ei poeti (per cosi dire) profesonisti». Ma davvero i oeti emersi negli ltimi decenni ono così venali, vidi, attaccati al A sinistra Cucchi sotto, a destra Magnili Giudici. M. L. Spaziarti a destra, e, sopra, Sanguineti ^^^^^^^^^^^^^ tore e per questo vengo invitato nelle cene importanti: è lì che mi guadagno il pane. Grazie alla mia bella presenza, alla mia capacità di sorridere e alla mia bravura nel parlare vado al Maurizio Costanzo Show. Apparire è giusto, e anche remunerativo, malgrado Giudici e il suo attonito stupore per le disgrazie del mondo». I poeti si ribellano. Replicano che con i loro diritti d'autore, decisamente più magri di quelli percepiti dai loro colleghi «narratori», non si campa. «Ogni volta è un pietire miserabili anticipi presso gli editori», dice una poetessa che vive a Milano, sempre vestita di nero, e che detesta veder apparire il suo nome sui giornali. Collaborazioni giornalistiche? I poeti ricordano che Montale, per star dietro alle esigenze del giornale, doveva ricorrere ai servigi inconfessabili di un «negro» che gli scriveva gli articoli Premi? sieme con l'indigenza, ha ricevuto in dote, magra ma consolante, una specie di immunità editoriale che somiglia alla libertà. E almeno questa, ai monatti, lasciategliela». E poi chi l'ha detto che denaro e poesia siano in conflitto tra loro? «"Mi domando da tempo se il denaro sia di natura materiale o spirituale". Riesce a immaginare chi sto citando?», risponde Maria Luisa Spaziani. Non saprei. «Allora le vengo in soccorso. Si tratta nientemeno che di santa Teresa d'Avila. La quale cercava disperatamente soldi per aprire conventi. Morale: il denaro non è un male se serve per creare. E per dare la bellezza al mondo, cioè per adempiere la sua missione creativa, il poeta ha bisogno di fiori, profumi, viaggi a Venezia. Tutte cose che costano. Ma appunto, lo scopo di guadagnare è: fare soldi senza pensarci». «E invece con i diritti d'autore non si riesce a fare nemmeno un viaggio dignitoso», replica Giuseppe Conte. «Il discorso di Giudici esprime una mentalità impiegatizia, tardo-italiana, assistenziaiistica e pensionistica che mi sento di rifiutare in blocco», prosegue Conte, capofila di un ritorno alla «poesia civile», «e non capisco nemmeno per quale imperscrutabile motivo il poeta non debba tenere conferenze. Incredibile, se solo si pensa che un poeta riceve attenzione dagli editori soltanto se è consacrato e ovviamente postumo. E, poi, perché disprezzare il denaro in questo modo?». «Premesso che nutro per Giudici, che considero uno dei pochi veri maestri, una stima che rasenta la venerazione», dice invece Maurizio Cucchi, «devo dire che lui il posto fisso l'ha sempre voluto, io invece ho sempre cercato di liberarmenene». «Sono del 1945», continua Cucchi, «e i poeti della mia generazione non stanno in nessun posto e vivono senza tanti soldi. Io sono collaboratore esterno della Mondadori, fedele al mio desiderio di accettare soltanto lavori precari. Anche perché la mente non può impegnarsi su fronti così opposti come l'arricchimento e la poesia». «E' vero», aggiunge Edoardo Sanguineti, «chi è avido di denaro cerca altre strade perché carmina non dant panem ancora oggi. E se posso immaginare il nuovo romanziere che preme sul suo editore pensando anche all'aspetto economico, il poeta e l'editore sanno invece benissimo che è estremamente improbabile che si possa verificare il miracolo di un bestseller di poesia». E allora, per liberare il poeta dalle grinfie del mercato, per distoglierlo dagli affanni economici, è giusto, come ebbe a sostenere Pietro Ingrao all'indomani del caso Montale, che la collettività si assuma l'onere del sostentamento dei grandi poeti? «Il grande poeta è quello giudicato così col senno di poi», risponde Sanguineti, «e mi pare oltremodo problematico che un'ipotetica commissione sia concorde nell'attribuire a qualcuno la qualifica di grande poeta». Risponde invece Cucchi: «In linea di principio non vedo perché lo Stato può spendere soldi per il teatro e non per la poesia. Il guaio è che poi si rischia di creare una nuova figura: quella del poeta lottizzate». Pierluigi Battista LA PAROLA più amata più odiata r LA PAROLA CHE AMO: LA PAROLA CHE ODIO: PERCHE' PERCHE'

Luoghi citati: Cina, Milano, Venezia