Trieste, gelo sulla via dell'esodo di Giuliano Marchesini

Trieste, gelo sulla via dell'esodo La città si divide e teme l'invasione dei profughi bosniaci FRONTIERA DI UNA TRAGEDIA Trieste, gelo sulla via dell'esodo La solidarietà lotta contro vecchi rancori TRIESTE DAL NOSTRO INVIATO Al mercato di piazza Ponterosso c'è un piccolo popolo segnato dalla tribolazione. Si aggira tra i banchi che formano una specie di ghetto commerciale per gli slavi: i jeans, le magliette, le scarpe da ginnastica. A volte è più la voglia di comperare che il potere di acquisto. E' gente che ha attraversato le cannonate, le incursioni aeree. Una donna croata infila nella borsa logora un paio di calze che ha preso ^a poco prezzo, leva lo sguardo e dice: «Ma quelli stanno anche peggio di noi». «Quelli» sono i bosniaci, in rotta, ormai lontani dalle loro case finite nel cerchio della guerrai-il gruppo che è già passato {n'itaha la settimané'scorsa, le migliaia ammassate sui vagoni nella zona di Zagabria. Un tempo, questo mercato per gli slavi era molto fiorente. Adesso non si può dire che gli stretti corridoi tra una fila di banchi e l'altra siano affollati. Dino Polcan vende biancheria, ha un banco stracolmo. «Da quando di là sono cominciate le ostilità dice - c'è stato un calo delle vendite del 90 per cento. Restano clienti che hanno pochi soldi. Uno di questi palpa una maglietta bianca, seimila lire. Domanda se c'è qualcosa che costi meno». Il commerciante scuote il capo: «Meno di così non si può». Ma una donna slovena ha ancora un pensiero per «quelli», i bosniaci. «Loro non possono permettersi nemmeno questo. Brava gente, poveri disgraziati che hanno dovuto lasciare la casa e scappare via». Si passa una mano sulla fronte sudata: «Pensate, tutti bambini, donne e anziani. E gli altri sono là che combattono per la liberazione». E Trieste, come reagisce di fronte al dramma dei bosniaci che vengono dalla guerra? Dino Polcan ha una smorfia: «Purtroppo, qui ci sono ancora troppi rancori, cose difficili da dimenticare. La città non è proprio indifferente, ma un po' fredda sì. Certe ferite aperte dalla Jugoslavia non sono ancora del tutto rimarginate. Per esempio, quelli che furono costretti ad abbandonare l'Istria dicono che adesso loro si trovano nelle stesse condizioni. Questo può essere un modo per spiegare l'atteggiamento di Trieste. Non tutti sono così, però. Ci sono le associazioni che mandano aiuti, gente che dà qualcosa a quei poveracci. Anch'io ho portato qualcosa, a Rovigno. Roba buona, sa?». Nel mezzo del mercato c'è una bancarella di giocattoli. Un bambino accarezza timido un topolino di plastica. Lui è figlio di profughi, suo padre non ha denaro per comperare. Il giocattolo glielo regala il venditore, glielo mette tra le mani e gli dice: «Vai, caro, cerca di divertivo" un po'». «I profughi? - dice uno dei commercianti - aspettiamo, penso che debbano essere accolti e aiutati. Mandarli via? E dove si mandano?». Ma un altro ha una speranza: che non arrivino, che questa gente stravolta, sperduta non passi per le strade di Trieste come una colonna lacera. «E poi, noi non siamo attrezzati per ospitare nessuno». «Ma allora, dove possono andare, 'sti disgraziati?», domanda ansiosa una slava dal volto rugoso. L'altro risponde asciutto, facendo un gesto come se volesse allontanare qualcuno: «Ci sono tante caserme in Italia, possono sistemarli là dentro». In piazza Unità d'Italia si consuma il rito della passeggiata della tarda mattinata. Tanti anziani, pensionati, quelli che vivono sul ritmo di una città che pare lontana dalle altre, quasi fosse insofferente di vicinanze. Se non fosse per la fila di auto blu in sosta (lavanti al palazzo della Prefettura, dove è in corso una riunione delle autorità per far fronte al dramma dei fuggiaschi dalla Bosnia, qui non si avvertirebbe il problema dei profughi. Andrea Biloslavo è istriano, nato a Grisignana, in provincia di Pola. Lui è amaro: «Questi sbagli li fa soltanto il nostro governo. Non si dimentichi che qui ci sono stati ventimila infoibati, e che sono 350 mila quelli che hanno dovuto lasciare le loro terre in Istria». Biloslavo frena un momento il suo rancore: «Mi dispiace per quei bambini bosniaci». Poi toma ad alzare la barricata: «Io quella gente non la farei entrare in Italia». Ma, gli si fa notare, è gente che cerca la libertà. «Quale libertà? Adesso cercano di sottrarsi ai comunisti, ma sono comunisti che hanno cambiato giacca». Giuseppe Veronelli, pensionato, si ferma nel mezzo della passeggiata. Ed è duro anche lui: «Aiutarli sì, ma a casa loro. Noi qua non li vogliamo. Anche perché loro non vogliono noi». Ma se di là c'è la guerra, come si fa ad aiutarli a casa loro? Questo vecchio triestino non lo sa. «So soltanto che quando c'era la guerra da noi non ci ha aiutato nessuno». Scuote la testa bianca Franca Sceppi, seduta al sole su una panchina della piazza. Dice: «Pavera gente», con un lieve tremito nella voce. «Io se potessi aiutarli lo farei con tutta l'ani¬ ma. Ma non posso, perché ho una piccola pensione, e ho un figlio di 47 anni malato. Per me, comunque, qui ci possono stare tutti i profughi che vogliono venire. Ci penserà la provvidenza». Ma per molti triestini la Provvidenza dovrebbe portare i fuggiaschi dalla Bosnia lontano da qua. Perché questa Trieste insofferente, di fronte alla tragedia di migliaia di sbandati? «Non più di altre città - commenta lo scrittore Claudio Magris -. La prima responsabilità di quel che accade è dei governi successori dell'ex Jugoslavia, che dimostrano incapacità. E l'Europa sembra non agire con l'energia che sarebbe necessaria. Credo anche che non ci sia la volontà politica di risolvere il problema». Ma l'atteggiamento di Trieste nei confronti dei profughi? «Credo che Trieste, come ogni città, dimostrerà una generosità iniziale, e poi avrà molte cautele». Carlo Sgorlon, scrittore friulano, dice che la gente del Friuli è un po' assuefatta a vicende di questo genere. «Per ragioni storiche. Noi abbiamo sempre la porta aperta, quando una sventura colpisce un popolo». Trieste no, a quanto pare. «Anche questo è dovuto a ragioni storiche. Quella è una città ben memore di quel che accadde: l'invasione degli slavi alla fine della guerra, i quaranta giorni dell'occupazione. In quei quaranta giorni successe di tutto. E molti triestini finirono desaparecidos. Questi rapporti tesi, così sanguinanti, hanno lasciato una traccia profonda. E i triestini hanno un rifiuto totale nei confronti degli slavi. Evidentemente, la memoria preme anche di-fronte al dramma. dei profughi. E' una specie d'intolleranza inconscia». Vojmir Tavcar dirige il «Primorski dnevnik», quotidiano triestino in lingua slovena. «Io dice - ho la stessa sensazione di quando scoppiò la guerra in Slovenia: il triestino guardava di là con apprensione, temeva le ripercussioni di un esodo. Adesso per i bosniaci in fuga è lo stesso. Qui, a livello di iniziative umanitarie, non si nota nulla, se si eccettua qualche manifestazione per la pace in Bosnia, promossa da associazioni cattoliche. Qui si torna a parlare, ogni volta, del passato, il discorso cade sulle foibe, sull'esodo degli istriani, con traumi volutamente alimentati e comunque non superati». Per Bojan Brezigar, vicepresidente dell'Ufficio europeo per le lingue meno diffuse, Trieste non stupisce nemmeno in questa circostanza. «Ricordo che l'estate scorsa, quando ci si preparava per l'eventuale esodo degli sloveni, l'unica preoccupazione di questa città era che non si fermassero qui. Che si muoia a duecento chilometri di distanza, che ci sia gente disperata che cerca un tetto, un piatto di minestra, questo a Trieste non importa molto. Ci sono i vecchi rancori che riemergono, c'è ancora questa paura del mondo slavo che sta alle spalle della città. E poi, una grande indifferenza per tutto, che è tipica di Trieste». I timori assalgono Gianfranco Gambassini, presidente della Lista per Trieste. «Questa è un'ondata attesa da tempo. Ma è diffusa la convinzione che la città non sia assolutamente in grado di accogliere dei profughi. Questo è l'orientamento delle autorità: che Trieste può essere soltanto un luogo di rapidissimo transito. Ma l'Italia deve coinvolgere l'Onu, sia per gli aiuti sia per gli oneri». II treno carico di disperati non è ancora partito da Zagabria: non si sa quale destinazione possa avere questa gente. Ma a Trieste c'è una paura: che gli slavi arrivino e restino qui. Quella intolleranza inconscia di cui parla Sgorlon. In piazza Unità d'Italia, verso sera, riprende il solito passeggio. Tanti triestini sembrano camminare su un'isola lontana dai drammi dell'ex Jugoslavia, che pure è così vicina. Un pensionato sta seduto a un tavolino del Caffè degli specchi. «I profughi? - dice -. Che ci pensino gli altri. Noi ne abbiamo avute abbastanza, di storie». Giuliano Marchesini Sguardi commossi al mercato «Non possono comprare nulla» Mala spettro delle foibe fa dire: mandateli altrove Alcuni profughi in fuga dalla Bosnia giunti a Trieste, molti saranno dirottati in altre città [FOTO MASSIMO CETIN E ITALFOTO] Il mercato di Ponterosso e Carlo Sgorlon