E a Montecitorio esplode una «ola»

E a Montecitorio esplode una «ola» Applausi e tifo da stadio; le opposizioni esultano quando si delinea la sconfìtta di Forlani E a Montecitorio esplode una «ola» Scalfaro a fatica frena l'eccitazione dei grandi elettori NELL'AULA SUL FILO DEL VOTO GROMA IORNATA memorabile: il Parlamento della Repubblica si trasforma in un'aula di ricreazione. Urla, canti, allegre scompostezze, indisciplina, grida di ole, applausi, aria da stadio, aria da gita campestre con sosta all'osteria. Che cosa si dovrebbe dire e scrivere in casi del genere: ohibò? Quelle décadencel Via, non vale essere parrucconi incipriati in una tale primavera: l'albero delle tangenti è in fiore e sparge dalle corolle dei conti svizzeri polline morale per tutti i nasi. Che allergia, che allegria, che spasso. E il Parlamento reagisce non come una mummia bendata, ma come un'assemblea di creature umane costrette a superare barriere di imbarazzo, a rompere le catene di partito con un po' di goliardia, dapprima con lanci di palline di carta in qualche occhio, poi con qualche insulto e baruffa alla carrettiera, e quindi con insofferenza verso il nuovo preside che lancia rabbuffi talmente fuori moda, ma talmente fuori moda, da essere fuori moda. Erano forse impazziti ieri gli onorevoli senatori e deputati? Non ci sembrava, a noi che stavamo 11 con lo stetoscopio a vigilare sul sensorio dell aula. Semmai, pensavamo, impazzita sarà la logica dei partiti, impazzito sarà chi credeva e crede che quest'aula sia ancora quella di una volta con i capimazzieri e i franchi tiratori. La logica resiste, è forte, durerà, ci si può fare assegnamento. Ma ci sono anche i deputati che sono qui per ribellismo del popolo sovrano, e che si fanno beffa del tartufismo, si vestono come per la balera, laicizzano l'aria del trombonismo, e lo fanno non vilipendendo il Parlamento, ma se possibile recuperandolo al suo ruolo di libera assemblea, e non di luogo per la conta dei capi del bestiame. Il Bossi fa: «Noi lombardi, di sabato e domenica facciamo il tiro al piattello, barn, barn e buttiamo giù tutto». E aveste visto la sua cravatta. Quella ed altre cravatte gridavano viva il Parlamento molto meglio delle cravatte tartufa, della nomenklatura e della contro-nomenklatura. E insomma il Parlamento che ieri ha ripetutamente trombato l'Arnaldo aveva due anime o due corpi. La prima anima era quella del corpo compunto, tutti chini sul foglietto mentre Oscar Luigi Scalfaro legge e scruta. La seconda era quella che è sgorgata fuori nell'indisciplina, ma anche nel riconoscimento della propria coralità, nella liberazione della dissacrazione, vale a dire del momento in cui gli eletti del popolo si imbizzarriscono e rompono le regole stabilite dagli eletti dei partiti. Quando è cominciata la bagarre? A metà avanzata del primo scrutinio, quando si è visto che' Forlani aveva perso. E non tanto per dispetto contro il povero Forlani, ma per la soddisfazione di vedere cadere un castello di numeri che si reggeva soltanto su un'alleanza di governo. Riflettiamo: non era mai accaduto prima d'ora che un candidato al Quirinale si presentasse chiedendo soltanto - ed è il soltanto che conta - i voti di una maggioranza di governo tisica e risicata. Nelle democrazie anglosassoni un voto di maggioranza fa maggioranza e fa governo, ma in quella italiana un voto democristiano ha almeno tre teste di media. E dunque, l'aula che non era affatto sorda e grigia, e meno che mai luogo di bivacco, è stata non profanata, ma battezzata dai segni della festa, dell'applauso, della ribellione, dello sberleffo. Nel 1992 il decimo Parlamento repubblicano vive il suo '68. Noi, fuori aula, accalcati intorno ai televisori, sentivamo i nomi e i deputati erano tutti ingobbiti sulle loro schedine del totocalcio. Quand'ecco che alla lettura della scheda numero 239, con il nome di Nilde lotti, scoppia l'applauso. Ed era la prima novità. Applauso alla virata di boa, e veniva dai banchi del pds. Forlani era battuto, ma sulla base di una proiezione. Scalfaro non ha rinunciato a fare il preside spiritoso, dalle altere basette. E annuncia, come il maggiordomo dei romanzi di Woodehouse: «Lo scrutinio non si è ancora concluso, colleghi». Come per dire: state composti, so io come si sta in quest'aula. Brusio e modesti rumori molesti all'indirizzo del preside. Poi esce un voto per Còssiga. E allora i missini, presi da un raptus di ripicca, si spellano le mani applaudendo il nome del picconatore. Oscar Jeeves Scalfaro, seccato, solleva allora entrambi i sopraccigli sicché facciano da contrappeso alle basette, e con schifo glaciale sentenzia: «Vedo che sono molti che hanno vinto». Sai le risate. Uno grida: «Ha parlato la Bbc». Serpeggia brevemente in aula una stenle disputa fra leghisti della crusca alcuni dei quali sostengono che sia stato commesso un abuso sintattico: si dice «sono molti ad aver vinto». Si capisce intanto che il tetrapack di partiti ha l'elettroencefalogramma piatto. I missini, imbufaliti contro Oscar insorgono e gridano contumelie al suo indirizzo, ma lo fanno con tale unisono" da rendersi ' incomprensibili. E lo speaker della Camera scaraventa sulla classe indisciplinata un secchiello del suo gelo cosi signorile, profferendo, anche per eventuali citazioni storiche future, le seguenti memorabili parole: «Nessuno si sforzi di fare lo spiritoso quando gli manca lo spirito». Nessuno ride, ma scoppia invece un nuovo applauso, leghista questa volta, al solo sentir pronunciare il nome del professor Gianfranco Miglio, teoreta e bandiera dei bossiani. L'aula accenna una «ola», il serpentóne delle schiene curve si impenna, diventa un drago dalle mille teste. Applaudono i leghisti e insorgono ì monarchici come Covelli, gridando che siamo all'osteria, che la Repubblica è una burletta. Hanno torto: il Parlamento ieri ha mostrato e dimostrato di essere figlio del 5 aprile, e dunque di essere figlio delle leghe, del cossighismo, del neoliberalismo, della diaspora a sinistra, delle trasversalità, di tutto ciò che è orizzontale, indisciplinato. I partiti appaiono invece come statue di terracotta. Forse anche per questo Craxi appariva teso e scortesissimo, anche verso i giornalisti che cacciava via in malo modo, o che chiamava a sé con un cenno. Claudio Martelli spiegava, preoccupato, che non c'era mai stato quel legame incatenato, quel patto alla Caf di ferro, fra Craxi e Forlani, tu al Quirinale e io a Palazzo Chigi, blindati e uniti come un sol uomo; e che anzi Bettino voleva aspettare, progettava di fare un governo, semmai, soltanto se e quando anche il pds ci fosse stato, magari fra un anno, senza fretta, né traumi. Ma nel psi tira aria feroce, aria da rivolta di palazzo e di partito: Claudio Signorile ha la schiuma alla bocca e si vede che gli prude un Midas fra le mani, e non è il solo. Signorile tira per Bobbio. Anche Valdo Spini, sottosegretario agli Interni sacrificato dalla nomeklatura, punta ad un ribaltamento interno, anche se non fa l'anti-craxiano. Intanto però, e malgrado lo sbarco di Cossiga, venuto a votare Forlani come «amico» (e dunque senza motivazione politica), la questione presidenziale si fa più cancrenosa che mai. Si fanno calcoli alla buona e sono gli unici possibili: la de è interdetta, in tutti i sensi. Ha abbattuto il segretario, ha speso il suo capo, ha perso una scommessa e lo ha fatto in modo cal¬ colato e rituale: ha portato al taglio giugulare davanti all'urna il vitello Forlani, impennacchiato nel suo vestito buono, coperto di serti di mirto, nastri e preceduto da cembali suonati da Antonio Gava, che guidava il corteo funebre come se fosse una festa, e trascinava la bestia al macello. E lui, il capro gentile, remissivo, offriva il collo ringraziando. Uno spettacolo religioso, persino un briciolo di tauromachia. Ed appare sicuro che Forlani sia stato portato al sacrificio per decisione di molti uomini di Andreotti, il mite sornione. Un testimone di alto rango che non nomino mi ha raccontato di aver visto con i suoi occhi gli andreottiani andare con due schede nelle tasche, una da mostrare e una da votare. Sorpresa e di chi? Chi poteva pensare che Giulio si sarebbe fatto liquidare come la fabbrica delle Trabant? Con chi credevano di avere a che fare questi signori? In aula i deputati e i senatòri se ne stavano accalcati come nelle scene del giudizio universale, con Vittorio Sgarbi che fa il Peter Pan, Palmella sempre più imponente, elegante e candido. C'è, in quest'aula ridente, scanzonata, domenicale, un seme di disfatta dell'egemonia delle parrucche, uno sberleffo al tartufismo di destra e di sinistra, che è anche un segno di rottura dei vecchi costumi. Non siamo alla rivoluzione, ma certamente all'evoluzione. Non scorre il sangue, ma ghigni e risate. Il comico prevale sul tragico e il clima è grottesco per suo conto. Gianfranco Fini, il segretario missino, mostra un tavolo: «Fino a tre giorni fa lì venivano i pagatori. Borse piene e soldi contanti. Pronti a pagare i voti. Prima i voti interni, i loro, poi quelli esterni. Hanno dovuto capire che questa volta non ce la fanno. Da noi non beccano». Sarà vero? Non sarà vero? Intanto, tutti parlano di una compravendita dell'ultim'ora, una sborsata. E si parla anche del nuovo assetto interno della de, do ut des. E Bossi è felice, gongolante, perché può fare la voce grossa, scherzare sui prezzi, e ripetere digrignando i denti che a Forlani no, mai: mai e poi mai. Le leghe sono in vetrina per dimostrare che a Roma sono arrivati i castigamatti della buona terra, forze del bene, ma anche dell'astuzia. Questo il ruolo che incarna il Bossi. Il quale si dice che sia pronto, semmai, a trattare con Andreotti, il che è credibile: ricordiamo benissimo il giorno in cui Giulio Andreotti nei comizi toscani ripeteva instancabilmente lo stesso passo in ogni discorso: «Ci sono leghisti matti, che vorrebbero le tre repubbliche, e ci sono leghisti savi, come il professor Miglio, gente con cui si può trattare, con cui si può ragionare». Mai dire mai, è il motto di Giulio. E Bossi lo sa. Ma davvero è tornato forte, Giulio? Giulio tenterà, dicono i suoi uomini, ma in sordina: non è uomo da chiasso, non ci tiene più di tanto, ha un corredo personale di cento voti esterni e trasversali. L'errore è stato quello di averlo messo in pensione. Peggio per voi. Che farà? Trattativa discreta e serrata. Apertura ai riformatori cossighiani, ma senza alzare polvere. Proverà. Forse fallirà, e allora non ci sarà altro da fare che prendere atto dello stallo di tutte le forze contrapposte e arrivare alla soluzione istituzionale innocua, al secondo Pettini, Bilancio della prima fase di guerra: i pattali hanno dimostrato di non esistere; il quadripartito non è una politica né un numero né una coalizione, almeno per ora. Alternative? E quali? forse i riformatori cossighiani tireranno fuori il loro pacchetto di voti per mostrare la consistenza del loro fronte, ma i socialisti non si arrischieranno a seguire liberali e missini e leghe. E allora? Allora non resterà che andare ai calci di rigore e trovare la famosa personalità super partes che scontenti il meno possibile e rammendi le smagliature. Nomi? Quelli già spesi per Camera e Senato: Scalfaro e Spadolini. Il bookmaker del transatlantico dà alla fine il presidente del Senato vincitore, ma soltanto dopo che tutto l'inutile sarà stato tentato e il rito sia stato condotto fino alle sue stremate conclusioni: la de spaccata e fratricida dalla cui guerra civile spurgano tossine. I partiti verticali avviati verso una crisi di organizzazione, identità e legittimità. Sicché il Parlamento finisce, in un guizzo di vitalità, col prendere in giro se stesso. . Forlani, poverino, si era messo il vestito blu delle grandi occasioni e faceva tenerezza. Ha incassato il calcio come un vero gentleman è, sentendo da fuori gli schiamazzi in aula, con cenni di cori alpini, ha chiesto: «Cos'è? Cosa sono questi applausi?». Non sapeva, il tapino, che si plaudiva la sua sconfitta. E pochi minuti prima delle quattro è arrivato Francesco Externator Cossiga, a rubargli la scena e presentarsi al Senatus populusque romanus, avendo lasciato Cap Ferrat, i suoi libri, e avendo varcato il Rubicone, presentandosi sul territorio della Repubblica. Era,- ieri, il 16 maggio, sant'Arnaldo martire . Paolo Suzzanti Il presidente della Camera «Colleghi, nessuno si sforzi di fare lo spiritoso quando gli manca lo spirito» Bossi: «Noi lombardi di sabato e domenica facciamo il tiro al piattello bang, bang, bang e buttiamo giù tutto» Il leader della Lega Lombarda Umberto Bossi Nella foto grande un'Immagine dell'aula di Montecitorio Sopra: Nilde lotti applaudita dai pidiessini A destra: il voto del Presidente uscente Cossiga s» |;t-.j E a Montecitorio esplode una «ola» Applausi e tifo da stadio; le opposizioni esultano quando si delinea la sconfìtta di Forlani E a Montecitorio esplode una «ola» Scalfaro a fatica frena l'eccitazione dei grandi elettori NELL'AULA SUL FILO DEL VOTO GROMA IORNATA memorabile: il Parlamento della Repubblica si trasforma in un'aula di ricreazione. Urla, canti, allegre scompostezze, indisciplina, grida di ole, applausi, aria da stadio, aria da gita campestre con sosta all'osteria. Che cosa si dovrebbe dire e scrivere in casi del genere: ohibò? Quelle décadencel Via, non vale essere parrucconi incipriati in una tale primavera: l'albero delle tangenti è in fiore e sparge dalle corolle dei conti svizzeri polline morale per tutti i nasi. Che allergia, che allegria, che spasso. E il Parlamento reagisce non come una mummia bendata, ma come un'assemblea di creature umane costrette a superare barriere di imbarazzo, a rompere le catene di partito con un po' di goliardia, dapprima con lanci di palline di carta in qualche occhio, poi con qualche insulto e baruffa alla carrettiera, e quindi con insofferenza verso il nuovo preside che lancia rabbuffi talmente fuori moda, ma talmente fuori moda, da essere fuori moda. Erano forse impazziti ieri gli onorevoli senatori e deputati? Non ci sembrava, a noi che stavamo 11 con lo stetoscopio a vigilare sul sensorio dell aula. Semmai, pensavamo, impazzita sarà la logica dei partiti, impazzito sarà chi credeva e crede che quest'aula sia ancora quella di una volta con i capimazzieri e i franchi tiratori. La logica resiste, è forte, durerà, ci si può fare assegnamento. Ma ci sono anche i deputati che sono qui per ribellismo del popolo sovrano, e che si fanno beffa del tartufismo, si vestono come per la balera, laicizzano l'aria del trombonismo, e lo fanno non vilipendendo il Parlamento, ma se possibile recuperandolo al suo ruolo di libera assemblea, e non di luogo per la conta dei capi del bestiame. Il Bossi fa: «Noi lombardi, di sabato e domenica facciamo il tiro al piattello, barn, barn e buttiamo giù tutto». E aveste visto la sua cravatta. Quella ed altre cravatte gridavano viva il Parlamento molto meglio delle cravatte tartufa, della nomenklatura e della contro-nomenklatura. E insomma il Parlamento che ieri ha ripetutamente trombato l'Arnaldo aveva due anime o due corpi. La prima anima era quella del corpo compunto, tutti chini sul foglietto mentre Oscar Luigi Scalfaro legge e scruta. La seconda era quella che è sgorgata fuori nell'indisciplina, ma anche nel riconoscimento della propria coralità, nella liberazione della dissacrazione, vale a dire del momento in cui gli eletti del popolo si imbizzarriscono e rompono le regole stabilite dagli eletti dei partiti. Quando è cominciata la bagarre? A metà avanzata del primo scrutinio, quando si è visto che' Forlani aveva perso. E non tanto per dispetto contro il povero Forlani, ma per la soddisfazione di vedere cadere un castello di numeri che si reggeva soltanto su un'alleanza di governo. Riflettiamo: non era mai accaduto prima d'ora che un candidato al Quirinale si presentasse chiedendo soltanto - ed è il soltanto che conta - i voti di una maggioranza di governo tisica e risicata. Nelle democrazie anglosassoni un voto di maggioranza fa maggioranza e fa governo, ma in quella italiana un voto democristiano ha almeno tre teste di media. E dunque, l'aula che non era affatto sorda e grigia, e meno che mai luogo di bivacco, è stata non profanata, ma battezzata dai segni della festa, dell'applauso, della ribellione, dello sberleffo. Nel 1992 il decimo Parlamento repubblicano vive il suo '68. Noi, fuori aula, accalcati intorno ai televisori, sentivamo i nomi e i deputati erano tutti ingobbiti sulle loro schedine del totocalcio. Quand'ecco che alla lettura della scheda numero 239, con il nome di Nilde lotti, scoppia l'applauso. Ed era la prima novità. Applauso alla virata di boa, e veniva dai banchi del pds. Forlani era battuto, ma sulla base di una proiezione. Scalfaro non ha rinunciato a fare il preside spiritoso, dalle altere basette. E annuncia, come il maggiordomo dei romanzi di Woodehouse: «Lo scrutinio non si è ancora concluso, colleghi». Come per dire: state composti, so io come si sta in quest'aula. Brusio e modesti rumori molesti all'indirizzo del preside. Poi esce un voto per Còssiga. E allora i missini, presi da un raptus di ripicca, si spellano le mani applaudendo il nome del picconatore. Oscar Jeeves Scalfaro, seccato, solleva allora entrambi i sopraccigli sicché facciano da contrappeso alle basette, e con schifo glaciale sentenzia: «Vedo che sono molti che hanno vinto». Sai le risate. Uno grida: «Ha parlato la Bbc». Serpeggia brevemente in aula una stenle disputa fra leghisti della crusca alcuni dei quali sostengono che sia stato commesso un abuso sintattico: si dice «sono molti ad aver vinto». Si capisce intanto che il tetrapack di partiti ha l'elettroencefalogramma piatto. I missini, imbufaliti contro Oscar insorgono e gridano contumelie al suo indirizzo, ma lo fanno con tale unisono" da rendersi ' incomprensibili. E lo speaker della Camera scaraventa sulla classe indisciplinata un secchiello del suo gelo cosi signorile, profferendo, anche per eventuali citazioni storiche future, le seguenti memorabili parole: «Nessuno si sforzi di fare lo spiritoso quando gli manca lo spirito». Nessuno ride, ma scoppia invece un nuovo applauso, leghista questa volta, al solo sentir pronunciare il nome del professor Gianfranco Miglio, teoreta e bandiera dei bossiani. L'aula accenna una «ola», il serpentóne delle schiene curve si impenna, diventa un drago dalle mille teste. Applaudono i leghisti e insorgono ì monarchici come Covelli, gridando che siamo all'osteria, che la Repubblica è una burletta. Hanno torto: il Parlamento ieri ha mostrato e dimostrato di essere figlio del 5 aprile, e dunque di essere figlio delle leghe, del cossighismo, del neoliberalismo, della diaspora a sinistra, delle trasversalità, di tutto ciò che è orizzontale, indisciplinato. I partiti appaiono invece come statue di terracotta. Forse anche per questo Craxi appariva teso e scortesissimo, anche verso i giornalisti che cacciava via in malo modo, o che chiamava a sé con un cenno. Claudio Martelli spiegava, preoccupato, che non c'era mai stato quel legame incatenato, quel patto alla Caf di ferro, fra Craxi e Forlani, tu al Quirinale e io a Palazzo Chigi, blindati e uniti come un sol uomo; e che anzi Bettino voleva aspettare, progettava di fare un governo, semmai, soltanto se e quando anche il pds ci fosse stato, magari fra un anno, senza fretta, né traumi. Ma nel psi tira aria feroce, aria da rivolta di palazzo e di partito: Claudio Signorile ha la schiuma alla bocca e si vede che gli prude un Midas fra le mani, e non è il solo. Signorile tira per Bobbio. Anche Valdo Spini, sottosegretario agli Interni sacrificato dalla nomeklatura, punta ad un ribaltamento interno, anche se non fa l'anti-craxiano. Intanto però, e malgrado lo sbarco di Cossiga, venuto a votare Forlani come «amico» (e dunque senza motivazione politica), la questione presidenziale si fa più cancrenosa che mai. Si fanno calcoli alla buona e sono gli unici possibili: la de è interdetta, in tutti i sensi. Ha abbattuto il segretario, ha speso il suo capo, ha perso una scommessa e lo ha fatto in modo cal¬ colato e rituale: ha portato al taglio giugulare davanti all'urna il vitello Forlani, impennacchiato nel suo vestito buono, coperto di serti di mirto, nastri e preceduto da cembali suonati da Antonio Gava, che guidava il corteo funebre come se fosse una festa, e trascinava la bestia al macello. E lui, il capro gentile, remissivo, offriva il collo ringraziando. Uno spettacolo religioso, persino un briciolo di tauromachia. Ed appare sicuro che Forlani sia stato portato al sacrificio per decisione di molti uomini di Andreotti, il mite sornione. Un testimone di alto rango che non nomino mi ha raccontato di aver visto con i suoi occhi gli andreottiani andare con due schede nelle tasche, una da mostrare e una da votare. Sorpresa e di chi? Chi poteva pensare che Giulio si sarebbe fatto liquidare come la fabbrica delle Trabant? Con chi credevano di avere a che fare questi signori? In aula i deputati e i senatòri se ne stavano accalcati come nelle scene del giudizio universale, con Vittorio Sgarbi che fa il Peter Pan, Palmella sempre più imponente, elegante e candido. C'è, in quest'aula ridente, scanzonata, domenicale, un seme di disfatta dell'egemonia delle parrucche, uno sberleffo al tartufismo di destra e di sinistra, che è anche un segno di rottura dei vecchi costumi. Non siamo alla rivoluzione, ma certamente all'evoluzione. Non scorre il sangue, ma ghigni e risate. Il comico prevale sul tragico e il clima è grottesco per suo conto. Gianfranco Fini, il segretario missino, mostra un tavolo: «Fino a tre giorni fa lì venivano i pagatori. Borse piene e soldi contanti. Pronti a pagare i voti. Prima i voti interni, i loro, poi quelli esterni. Hanno dovuto capire che questa volta non ce la fanno. Da noi non beccano». Sarà vero? Non sarà vero? Intanto, tutti parlano di una compravendita dell'ultim'ora, una sborsata. E si parla anche del nuovo assetto interno della de, do ut des. E Bossi è felice, gongolante, perché può fare la voce grossa, scherzare sui prezzi, e ripetere digrignando i denti che a Forlani no, mai: mai e poi mai. Le leghe sono in vetrina per dimostrare che a Roma sono arrivati i castigamatti della buona terra, forze del bene, ma anche dell'astuzia. Questo il ruolo che incarna il Bossi. Il quale si dice che sia pronto, semmai, a trattare con Andreotti, il che è credibile: ricordiamo benissimo il giorno in cui Giulio Andreotti nei comizi toscani ripeteva instancabilmente lo stesso passo in ogni discorso: «Ci sono leghisti matti, che vorrebbero le tre repubbliche, e ci sono leghisti savi, come il professor Miglio, gente con cui si può trattare, con cui si può ragionare». Mai dire mai, è il motto di Giulio. E Bossi lo sa. Ma davvero è tornato forte, Giulio? Giulio tenterà, dicono i suoi uomini, ma in sordina: non è uomo da chiasso, non ci tiene più di tanto, ha un corredo personale di cento voti esterni e trasversali. L'errore è stato quello di averlo messo in pensione. Peggio per voi. Che farà? Trattativa discreta e serrata. Apertura ai riformatori cossighiani, ma senza alzare polvere. Proverà. Forse fallirà, e allora non ci sarà altro da fare che prendere atto dello stallo di tutte le forze contrapposte e arrivare alla soluzione istituzionale innocua, al secondo Pettini, Bilancio della prima fase di guerra: i pattali hanno dimostrato di non esistere; il quadripartito non è una politica né un numero né una coalizione, almeno per ora. Alternative? E quali? forse i riformatori cossighiani tireranno fuori il loro pacchetto di voti per mostrare la consistenza del loro fronte, ma i socialisti non si arrischieranno a seguire liberali e missini e leghe. E allora? Allora non resterà che andare ai calci di rigore e trovare la famosa personalità super partes che scontenti il meno possibile e rammendi le smagliature. Nomi? Quelli già spesi per Camera e Senato: Scalfaro e Spadolini. Il bookmaker del transatlantico dà alla fine il presidente del Senato vincitore, ma soltanto dopo che tutto l'inutile sarà stato tentato e il rito sia stato condotto fino alle sue stremate conclusioni: la de spaccata e fratricida dalla cui guerra civile spurgano tossine. I partiti verticali avviati verso una crisi di organizzazione, identità e legittimità. Sicché il Parlamento finisce, in un guizzo di vitalità, col prendere in giro se stesso. . Forlani, poverino, si era messo il vestito blu delle grandi occasioni e faceva tenerezza. Ha incassato il calcio come un vero gentleman è, sentendo da fuori gli schiamazzi in aula, con cenni di cori alpini, ha chiesto: «Cos'è? Cosa sono questi applausi?». Non sapeva, il tapino, che si plaudiva la sua sconfitta. E pochi minuti prima delle quattro è arrivato Francesco Externator Cossiga, a rubargli la scena e presentarsi al Senatus populusque romanus, avendo lasciato Cap Ferrat, i suoi libri, e avendo varcato il Rubicone, presentandosi sul territorio della Repubblica. Era,- ieri, il 16 maggio, sant'Arnaldo martire . Paolo Suzzanti Il presidente della Camera «Colleghi, nessuno si sforzi di fare lo spiritoso quando gli manca lo spirito» Bossi: «Noi lombardi di sabato e domenica facciamo il tiro al piattello bang, bang, bang e buttiamo giù tutto» Il leader della Lega Lombarda Umberto Bossi Nella foto grande un'Immagine dell'aula di Montecitorio Sopra: Nilde lotti applaudita dai pidiessini A destra: il voto del Presidente uscente Cossiga s» |;t-.j

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