Nel cuore di Roma il racket del dragone

Nel cuore di Roma il racket del dragone L'arresto di un taglieggiatore con 80 milioni porta alla luce la «gang degli occhi a mandorla» Nel cuore di Roma il racket del dragone La mafia cinese sbarca nella capitale e firma con un sole rosso ROMA. Un sole rosso, simbolo di tramonto e di sangue. Quando Chu Xang ha visto quella macchia di fuoco sfolgorare sulla portiera della sua auto, ha capito che per lui, emigrato di lusso, la Cina era di nuovo vicina: la Cina che taglieggia e uccide, la Cina della malia stava entrando per la prima volta nel cuore di Roma. Comincia così la storia di questo «Anno del dragone» ali amatriciana, culminato giovedì notte nell'operazione di polizia che in pieno centro storico ha sventato un'estorsione e arrestato un uomo, mentre altri due compari riuscivano a scappare. Chu Xang, la vittima, ha ventitré anni e gestisce per conto della sua numerosa e ramificata famiglia due dei trecento ristoranti cinesi della Capitale, in via Nomentana e in via San Martino ai Martiri. Anche su quelle vetrine il sole rosso non ha tardato a comparire. Nella sua stra¬ tegia della paura, la mafia cinese procede per gradi. Dopo i disegni, arrivano le telefonate. Prima suadenti, poi sempre più secche, fino alla pesante minaccia: «Se non ci dai ottanta milioni, facciamo fuori tuo padre». Chu entra in contatto con la polizia italiana e prepara la trappola. Alla prossima telefonata fingerà di abbozzare e darà un appuntamento al taglieggiatore per consegnargli il primo acconto. Il rendez-vous è fissato per giovedì notte, nell'androne di un palazzo del centro, non lontano da piazza Venezia. Chu ci arriva con quindi-. ci milioni e un nugolo di agenti, che in precedenza hanno fotocopiato le matrici delle banconote. «Parola d'ordine: 509». Alle undici di sera, tre cinesi bussano al portone. Li guida Lin Fang Tian, ventotto anni di cui l'ultimo passato a Roma senza fissa dimora. Per coglier¬ lo in flagrante, gli agenti aspettano che i soldi finiscano nelle sue mani (conta con scrupolo i bigliettoni, uno per uno) e da lì, poi, nelle sue tasche. Solo a quel punto scattano le manette. Chissà se è stato davvero Chu a rivolgersi alla polizia, come garantiscono le fonti ufficiali, o se invece non è accaduto il contrario. Contro la classica tesi di una «soffiata» carpita negli ambienti della malavita romana gioca però il tradizionale isolamento della mafia cinese. A differenza di altre minoranze bellicose, come ad esempio quella portoricana, la delinquenza asiatica non ama fare affari con gli stranieri. Preferisce accanirsi in esclusiva con i suoi connazionali all'estero, per la maggior parte proprietari di ristoranti. Non a caso, il gesto criminale più eclatante compiuto a Roma dai cinesi è stata una rapina in casa di un ristoratore. Poco socievoli, i mafiosi cine¬ si, e difficili da localizzare. A Roma non esiste un quartiere paragonabile alle «Chinatown» americane. Si parlò di costruirne uno intorno a via Merulana, ma poi non se ne fece nulla. Era il 1987, l'anno in cui cinquemila cinesi calarono sulla Capitale insieme alla moda che faceva sorgere come funghi i loro ristoranti. Da allora la piccola comunità orientale vive sparpagliata. Per lungo tempo, la mafia cinese ha prosperato soprattutto sulla falsificazione di passaporti e permessi di soggiorno. Un gioco da ragazzi, se si pensa alla difficoltà per un doganiere italiano di distinguere il cinese effigiato in fototessera da quello che gli sta davanti agli occhi. Anche la lingua costituisce un ostacolo all'allargamento delle attività: la mafia del «dragone» disegna, scrive e parla soltanto in cinese. Almeno per ora. Massimo Grameilini

Persone citate: Fang, Tian

Luoghi citati: Cina, Roma