Bot e depositi bancari nel labirinto del fisco

Bot e depositi bancari nel labirinto del fisco f I NOSTRO SOLDI 1 Bot e depositi bancari nel labirinto del fisco L neo-eletto presidente della Confindustria vorrebbe far pagare un'imposta maggiore sui redditi da titoli di Stato, ma è chiaro che si riferisce al reddito lordo, cioè non depurato dall'inflazione». Così ci scrive il signor Stefano Alasia, di Tonno, che, con la sua lettera, datata 27 aprile, si riferisce, probabilmente, pur se con una notevole libertà d'interpretazione, come vedremo, all'intervista rilasciata da Luigi Abete al nostro Alberto Staterà, pubblicata su «La Stampa» del 21 aprile. Il lettore prosegue osservando che l'inflazione («calcolando quella dell'anno scorso, perché quella dell'anno corrente è ancora aleatoria»), costituisce già «una tassa del 6,40% sul capitale investito» (il che, però non è esatto, ma qualcosa di meno, altrimenti bisognerebbe dire che, con un'inflazione del 100% il capitale si azzera completamente, mentre, in realtà, diminuisce del 50% il suo potere d'acquisto). Il signor Alasia afferma, a questo punto, che, «ponendo eguale a 11 il reddito annuale di ogni 100 lire investite in titoli di Stato, e tenendo conto della ritenuta fiscale del 12,50% già esistente (pari a 1,375 lire per le 11 di reddito lordo), «io pago già l'equivalente di oltre 70 lire ogni 100 di reddito». Il lettore conclude: «Il risparmiatore (ce lo vogliamo ricordare?) dovrebbe essere protetto dalla Costituzione e, in ogni modo, non è più disposto a fare il fesso di turno, come ha fatto fino a nemmeno dieci anni fa». In quella intervista del 21 aprile, rispondendo alla domanda: «Bruno Trentin ha detto che bisogna tassare i Bot: questo non comporterebbe un maggior flusso di capitali verso le imprese?», Luigi Abete, presidente «designato» della Confindustria (il passaggio delle consegne con Pininfarina avverrà il 28 maggio), rispondeva: «Attualmente c'è una sperequazione tra tassazione di rendita, profitto e lavoro, per cui si dovrebbe puntare a un sistema di tassazione onnicomprensivo, che non escluda i titoli pubblici». Non c'è, pertanto, in questa frase, anche se potrebbe lasciarla intuire, quella «volontà» (cui allude, invece, il signor Alasia) di «far pagare un'imposta maggiore sui redditi da titoli di Stato». C'è, invece, il riconoscimento che esiste, e si dovrà affrontare, il problema di rivedere il trattamento fiscale su tutte le rendite da capitale. Una revisione, però, che dovrebbe incominciare, anche per ragioni «europee», da quel 30% d'imposta sul rendimento dei depositi bancari, quale ne sia l'importo, e che, oltre ad essere altissimo, contraddice il principio fondamentale della progressività dell!aliquota. Quanto al¬ l'aggravamento dell'imposizione sui redditi da titoli di Stato, quale si avrebbe con il loro inserimento nell'imponibile complessivo, ai fini dell'Irpef, ho già espresso, anche di recente, su questa rubrica, il mio parere lontrario. Ed è stato con viva soddisfazione che ho letto, su «La Stampa» del 29 aprile u.s. l'analogo parere contrario di Paolo Sylos Labini. L'economista, a una domanda dell'intervistatrice, Flavia Amabile: «E la tassazione dei titoli di Stato? Non fa parte anch'essa di una corretta politica fiscale?», risponde: «Assolutamente no. E' solo una partita di giro per lo Stato e di raggiro per gli italiani. In economia vige il principio dei vasi comunicanti: tutto è collegato. Tassare i titoli di Stato significa aumentare tutti gli interessi. Invece di spaventare inutilmente la gente, bisognerebbe pensare ad abbassare il deficit pubblico. C'è poco da fare, anche se è difficile, dobbiamo renderci conto che è questo l'unico punto di partenza». Osservo, da parte mia, che anche Luigi Abete completava la sua risposta con le parole: «Ma chi vuole superare l'attuale iniquità (la sperequazione fiscale, n.d.r.) dovrebbe prima lavorare per ridurre la spesa pubblica». Aggiungo ancora, anche per dare una piccola pennellata chiara nel quadro, sempre oscuro, della finanza pubblica, che il deficit «primario», cioè al netto degli interessi, delle amministrazioni pubbliche si è chiuso nel 1991 con un disavanzo di 487 miliardi, contro un disavanzo di 17.382 miliardi nel '90. Sono gli interessi, invece, sul debito pubblico che continuano a salire: da 126 mila miliardi nel '90 (e da 106 mila nell'89), hanno superato i 145 mila miliardi l'anno scorso. E si vorrebbe, ancora, dargli un'ulteriore spinta all'insù, quale sarebbe indispensabile, con l'inserimento nell'imponibile Irpef del reddito da titoli di Stato, per non far fuggire i risparmiatori, che ne possiedono ben oltre la metà, oltre il 55% di quelli in circolazione? Con l'ulteriore conseguenza, già sottolineata da Sylos Labini, che ciò comporterebbe l'aumento di tutti i tassi, quindi dell'inflazione: l'ultima cosa, proprio, di cui l'Italia ha bisogno, in questo momento, anche senza pensare all'Europa, quella di cui a Maastricht si è disegnato l'identikit. Mario Salvatorelli Bili |

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