Zoccoli, Ray-ban e jeans l'abito fa il candidato

Zoccoli, Ray-ban e jeans l'abito fa il candidato IL PALAZZO r— Zoccoli, Ray-ban e jeans l'abito fa il candidato UTTO chiaro, allora: l'abito fa il candidato. E l'abito color nocciola non fa il presidente. E adesso chissà dov'è finita quella giacca marrone chiaro che Ciriaco De Mita sostiene di aver cercato, invano, nel guardaroba di casa. «Su un giornale spiega proprio davanti alle vetrine di un negozio d'abbigliamento - ho letto che non potrei andare al Quirinale perché in genere indosso abiti color nocciola». «Denunciano incertezza e ambiguità» aveva detto al Corriere della Sera il pubblicitario Mario Mele. Di qui l'infruttuosa ispezione demitiana. Di qui, come se poi non bastasse tutto il resto, l'irrompere di un ulteriore, variopinto elemento di selezione nella gara presidenziale. Con l'aria che tira sembra uno scherzetto strambo, un capriccio politico-giornalistico. Eppure stavolta entrano in gioco anche i capi d'abbigliamento e i colori richiamati, per forza d'immagine, dai leader quirinabili. Grigio, senza speranze, Forlani. Ancora grigio, variante cielo di Austerlitz, Martinazzoli. «Non ho l'abito da sera» garantisce Tina Anselmi. Però, sul Venerdì di Repubblica, la si può rimirare col costume tipico della sua zona. Grande il potere evocativo degli indumenti e degli accessori. Così, a dispetto della primavera, non si dimentica la sciarpa di seta bianca - un dolce strangolamento - del freddolosissimo Andreotti. Oppure l'eterno fazzoletto ufficial-istituzionale nel taschino di Spadolini. Più suggestivi i dati cromatici e vestiari di Craxi e del psi. Qui l'evoluzione del guardaroba sembra disegnare addirittura una traiettoria. Il vecchio basco blu di Nenni, simbolo operaio, sostituito da una modernizzazione estetica mai del tutto legittimata, con i nuovi socialisti che indossano giacche - si scriveva nel 1977 - «da piazzisti d'automobili». Poi quel trionfo di giubbottini da stilisti e tutiin pelle da motociclisti: i primordi del rampantismo. giur I ne il I prin Martelli in camicia celeste, con i pizzetti del colletto all'insù. De Michelis, non ancora cosmopolita, affidato alle cure di Esposito, il portiere del «Plaza», prima di scoprire la sarta britannica. Bettino ondeggiante tra i jeans, la cravatta rossa e il pareo da spiaggia. Con la grisaglia da statista che segna 1 apice del successo. Fino a quella «canotta» che nel forno congressuale di Bari sembra anticipare la liquefazione del sogno craxiano. Indumenti e colori come presagi. Il cappello farfallone a falde larghe e i panciotti pittoreschi del giovane Occhétto che a guardarli'* meglio già lasciavano intra- , vedere lo schianto rispetto ai tristi ma rassicuranti golfetti di Berlinguer. Le camicie Brooks Brothers di Veltroni così distanti e incompatibili dal colbacco di Trombadori o dalla scoppoletta tipo «Politburò» di Pajetta. Ma anche dal velluto del rifondatore Garavini. Abiti e strappi: la trasformazione liberatoria di Cossiga, ai limiti del travestimento, T-shirt e uniformi di ogni genere. 0, al contrario, lo storico doppiopetto gessato di Almirante riesumato da un Fini che non disdégna i Ray-Ban. La rivoluzione femminista che entra a Montecitorio sugli zoccoli di Emma Bonino. Il potere laborioso della de nel berretto di lana incolore della Falcucci, confezionato a maglia dalla sorella e inconsapevolmente identico a quello dei «rasta» giamaicani. Verde ramarro come l'impermeabile del ministro Prandini. Nero come il calzino, al malleolo, di Galloni. Filippo Ceccarelli Bill |

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