NELLE LETTERE C'E' DITTATURA: DECIDONO TUTTO I GERONTOCRATI di Luca DoninelliMirella SerriLuca Doninelli

NELLE LETTERE C'E' DITTATURA: DECIDONO TUTTO I GERONTOCRATI Luca Doninelli NELLE LETTERE C'E' DITTATURA: DECIDONO TUTTO I GERONTOCRATI N MILANO ELLA nostra società letteraria c'è una dittatura: quella della gerontocrazia. A partire dal dopo¬ guerra in poi, una generazione di critici ha preso il potere e anche il Gerovital e si tiene ben strette le posizioni conquistate, senza minimamente pensare a un possibile ricambio». Interviene così, polemicamente, nel dibattito sul rapporto tra scrittori e critici, con uno sguardo poco ottimista sul presente delle nostre lettere, il trentaseienne scrittore bresciano Luca Doninelli, militante eli Comunione e Liberazione, seguace di don Giussani e Roberto Formigoni. «Ci piaccia o no, la mia è una generazione di scrittori senza grandi maestri. I critici, poi, le cose migliori di un libro riescono a dirle quando hanno pochi interessi in campo», afferma il narratore di cui è uscito il secondo libro, La revoca (Garzanti, pp. 130, L. 28.000), la storia di due vite parallele dei fratelli Mario e Maria, e della loro diffìcile dimensione esistenziale, alla ricerca della «purezza» e nel contrasto con la volontà del «cupio dissolvi». Il primo libro di Doninelli, i racconti pubblicati all'inizio del '90 nei Due fratelli, aveva suscitato l'entusiasmo dei critici, anche dei più esigenti, come Geno Pampaloni e Pietro Citati: quest'ultimo aveva parlato di «straordinaria sicurezza della voce e dello stile». La revoca conferma la tendenza di Doninelli a battere la strada di un modo inedito di raccontare: e cioè l'uso di un tono e di uno stile espressionisti, fatti di accesi contrasti, che testimoniano di un senso di colpa e del timore del peccato e cercano nel «sottosuolo» le spiegazioni del rovello interiore. Sembra essersi chiuso così un ciclo letterario: quello che ha percorso tutti gli Anni 80, dominati dal racconto «minimalista» e dalla scelta di uno sguardo narrativo fugace e «leggero», non adatto ad affrontare tematiche «forti» e troppo drammatiche. Votato, in altre parole, più all'osservazione in superficie dei gesti e dei comportamenti, che non allo scavo e alla descrizione dell'interiorità. Ora quel decennio è finito, e non solo cronologicamente. In questa svolta che compito ha dunque avuto la critica? Nel 2<\o caso, ad esempio, lei, Doninelli, che ha al suo attivo anche una lunga esperienza di crìtico su II Sàbato, ritiene di essere stato influenzato dal dibattito in corso nella sua scelta narrativa? «Non molto. Le caratteristiche della mia' scrittura dipendono dalla mia formazione personale. Io ho due debiti: uno con mio padre, che mi ha dato un'educazione abbastanza rigida, quasi calvinista, e mi ha instillato il senso del rigore e del dovere contro là mia natura di farfallone, sognatore, bugiardo. Come diceva Luigi Pareyson, l'artista, a differenza dell'artigiano, non deve solo ricalcare pedissequamente, un modello preesistente, ma deve pensare per dare una forma al proprio oggetto, deve essere subalterno a un "dettato", a degli obblighi di forma. Deve praticare un'estetica dell'obbedienza. E così io ho imparato a dare una forma concreta alle mie intuizioni e ai miei sogni. L'altro mio debito ce l'ho con l'educazione cattolica avuta fuori casa». Qual è la sua opinione sulla letteratura di questi ultimi anni? «Il difetto della nostra letteratura è che a volte non si cerca di dire cose nuove, ma di fare il verso ad altri scrittori. E così si contribuisce ad allargare il campo della letterarietà. Scrittori di qualità emersi in questi ultimi anni ce ne sono parecchi: da Aldo Busi ad Andrea Canobbio con Traslochi, da Michele Mari con La stiva e l'abisso allo straordinario ex terrorista di destra Giuseppe Lo Presti, autore di un libro finora poco noto 17 cacciatore ricoperto di campanelli». Mirella Serri Luca Doninelli pubblica da Garzanti «La revoca»

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