Bausch apocalisse a Venezia di Luigi Rossi
Bausch, apocalisse a Venezia Alla Fenice «Viktor» dedicato a Roma: pubblico decimato Bausch, apocalisse a Venezia Il pezzo è fra i meno convincenti Ottimi danzatori, repliche esaurite VENEZIA. La primavera italiana della signora Bausch è iniziata alla Fenice con «Viktor» e proseguirà a Torino e a Roma con «Ifigenia in Tauride». La riproposta di «Viktor» presenta alcune innovazioni ed aggiustamenti rispetto alla creazione di Roma nel 1986, nel senso che rivela meno connotazioni legate alla città alla quale intendeva rendere omaggio, primo capitolo «italiano» di una serie che vedrà in seguito «Palermo Palermo» spettacolo contiguo e analogo. «Viktor» non è forse uno degli esiti più convincenti della caposcuola del Tanztheater tedesco; nuoce l'insistita prolissità tutta teutonica di uno spettacolo che varca le tre ore ed ha duramente provato gli spettatori giunti un po' decimati agli applausi finali, peraltro convinti, da parte dei superstiti «fedelissimi» arrivati da ogni parte. C'è poi il collage musicale scarsamente coerente che assembla musiche popolari soprattutto del Sud Italia con la «Patetica» di Ciaikovskij, motivi di danza medievali con gli immancabili tanghi Anni Trenta prediletti dall'autrice. Forse perché prodotto nei giorni terribili di Cernobil «Viktor» è una sorta di apocalittico «day after» che si svolge in un cratere di vulcano spento, vanamente e maniacalmente tentato di colmare da parte di un assiduo spalatore che butta sabbia dall'alto durante tutto lo spetta- colo. Sorprendenti le analogie dell'attualità dell'Etna, ma da sottolineare anche che le alte pareti di tufo possono suggerire l'idea delle catacombe romane, senza nessun rimando religioso, peraltro. In questo cratere desolato inizia una serie di eventi che procede con accelerazione sempre più frenetica. Appare subito una figura dal sorriso enigmatico, senza braccia come la Nike di Samotracia (che sia qui il richiamo del titolo?), che lascia il posto ad una danzatrice avvolta in un tappeto persiano come Ida Rubinstein nella «Cleopatra» di Fokine al tempo dei Balletti Russi. Poi giunge una sorta di colf di lusso in paillettes e lustrini che lucida instancabilmente il pavimento, mentre sullo sfondo si assiste ad una sorta di frenetica «asta» dei più disparati oggetti. L'affollatissimo palcoscenico ospiterà pecore, cani e altri animali domestici, una sorta di campionario del quotidiano travolto poi da una immane catastrofe che spazza ogni cosa, in una ventata di distruzione che sembra avere agganci di attualità nei fatti di Los Angeles. Una «frenetica e perfettamente coordinata follia», come la definisce la sua esegeta Leonetta Bentivoglio, ed è la stessa definizione usata da Stendhal per Rossini quando parlava di «folie organisée» a proposito della «Italiana in Algeri». La chiave principale di lettura di «Viktor» ci sembra quello del grottesco nero, con momenti dichiaratamente drammatici come il desolato finale ove la stanchezza sembra sopraffare la furia frenetica che caratterizza lo spettacolo. Certo non c'è nulla di mediterraneo in questo «Viktor», ed è assente il riferimento aneddotico e turistico ad una Roma che, almeno in apparenza, sembra negare la disperazione di questo espressionismo che, anche nei momenti apparentemente euforici, è disperato, un'autentica «allegria di naufraghi». Ancora una volta da sottolineare la strepitosa bravura del Tanztheater di Wuppertal, nel quale abbiamo mdividuato la personalità di un'altra giovane italiana, dopo la Libonati, quella di Aida Vainieri. In aggiunta a questi interpreti superspecializzati un gruppo di anziane comparse locali che hanno partecipato anche a danze, amalgamandosi perfettamente con lo stile di Pina Bausch. Sei recite esaurite alla Fenice, a riprova dell'interesse per un'artista che qui è stata ripetutamente e per la quale era stato addirittura organizzato un festival nel 1985. Luigi Rossi Un momento di «Viktor» di Pina Bausch, presentato alla Fenice
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