Le lunghe gambe della seduzione di Alberto Papuzzi

Le lunghe gambe della seduzione Le lunghe gambe della seduzione Gli amori, ipettegolezzi, la polemica con la sua Germania ARLENE Dietrich è nata a cavalcioni di una sedia berlinese, in un fumoso cabaret, le lunghe gambe simbolo di una seduzione che perverte, come la si intendeva negli anni tra le due guerre: è la Lola Lola dell'Angelo azzurro di Josef von Sternberg, girato nel 1930, che porta alla perdizione Emil Jannings. Il regista austriaco diceva di lei: «E' una donna molto sofisticata e quasi infantile, molto ingenua e molto furba, molto leale e molto pericolosa. Per capirla bisogna aver conosciuto la sua famiglia, il suo ambiente, la sua vita privata prima del successo. Si è formata in condizioni molto dure. Se non avesse avuto un'eccezionale vitalità e una formidabile energia non avrebbe mai potuto sopravvivere». Le origini della Dietrich sono state circondate da un'atmosfera di vaghezza che contribuì ad alimentare la leggenda. La data di nascita rimase incerta finché non si trovò la registrazione anagrafica: si chiamava in realtà Maria Maddalena von Losch ed era nata a Berlino il 27 dicembre del 1901 (lei diceva nel 1907 o nel 1904). Le cronache descrivono un'adolescenza borghese segnata da dure esperienze: la morte del padre, poliziotto prussiano, l'interruzione degli studi di violino, non si sa se per difficoltà economiche o per una tendinite alla mano. Quando Sternberg la scoprì, Marlene aveva una particina in Due cravatte di Georg Kaiser in un teatro berlinese. Aveva girato, senza gloria, una dozzina di film, era sposata con un aiuto regista, aveva una figlia (Maria che si sposerà in America e le darà quattro nipoti). Il regista raccontò che al provino si presentò una donna sfiduciata: «Non era nessuno e aveva ben poche possibilità di successo». Ma era proprio questa immagine di donna spezzata, dove i sogni si spengono e resta soltanto l'erotismo, ciò che Sternberg cercava per Lola Lola. Il successo mondiale dell'Angelo azzurro portò la coppia Sternberg - Dietrich dritta a Hollywood, allora la città santa del cinema, contratto con la Paramount, dove realizzò sei film, tra il 1930 e il 1935, da Marocco (con la celebre scena di Marlene in frac che insegue nel deserto il legionario Gary Cooper) all'Imperatrice Caterina, un sontuoso omaggio del regista alla diva da lui creata. Quel sodalizio non era soltanto artistico: «Io sono la signorina Dietrich e la signorina Dietrich è me», diceva Sternberg ai pettegoli. Quanto alla Dietrich, scrisse nelle memorie: «Sternberg è l'uomo al quale ho voluto piacere di più». Però non aveva divorziato dal signor Rudolf Sieber, il legittimo marito, che l'a- veva seguita in America e divenne allevatore in California. Negli Anni Quaranta Marlene Dietrich era diventata per gli americani il simbolo della generazione tedesca sconfitta dal nazismo. Si raccontava che avesse respinto le offerte di diventare la stella numero uno del cinema hitleriano. Frequentava gli ambienti intellettuali e suscitò una passione in Hemingway, che scrisse: «Quando ama può scherzarci sopra ma si tratta di un umorismo sinistro». Fra le sue amicizie, che suscitarono pettegolezzi, anche quelle con lo chansonnier francese Maurice Chevalier e lo scrittore tedesco Erich Maria Remarque. Fra i suoi ammiratori Jean Cocteau e Noel Coward, Salvator Dali e Alberto Giacometti. Una passione che sembrava la trasposizione di un suo feuilleton cinematografico fu quella con Jean Gabin, quando il popolare attore, durante l'occupazione nazista, si era trasferito negli Stati Uniti. Tornarono in Europa insieme, lui con l'esercito di liberazione, lei vestita da soldato, per gli spettacoli che allietavano le truppe. La relazione si sgonfiò con il fiasco di un film, Turbine d'amore, il primo e l'ultimo che girarono insieme. Dopo la guerra, la Dietrich scelse la vita della cantante e dedicò al cinema brevi apparizioni [Testimone d'accusa di Wilder nel 1957, L'infernale Quinlan di Welles nel 1958, e Gigolò di Hemmings, l'ultimo, nel 1979). Di questa svolta fu protagonista, dopo Sternberg, un altro pigmalione, il compositore Burt Bacharach, che scriveva le sue canzoni, le insegnò a stare sul palcoscenico e le disegnava anche i vestiti. La Dietrich cantava Lili Marlene nei teatri affollatissimi delle grandi capitali, con la voce roca, la bellezza diafana, portando in giro, ancora una volta, l'immagine di una Germania di nuovo sconfitta, la Berlino delle macerie, della divisione e dell'odissea. I tedeschi, d'altronde, la consideravano una traditrice: al ritorno in Germania nel 1960 fu accolta con manifestazioni ostili. Nel 1974 cadde dal palcoscenico a Londra, nel 1975 si fratturò una gamba a Sydney, l'anno dopo lasciò il teatro. Fino a settantacinque anni aveva continuato a cantare, con le ciglia finte, la bocca stretta, l'abito bianco attillato con le paillettes, le pellicce di volpe, sempre più glaciale, sempre più simbolica, spettro di qualcosa che non esisteva più. Pubblicò le sue memorie e anche un libro di detti. Come scrisse Renato Ghitto, ebbe il singolare e raro destino di «sopravvivere al divismo restando una diva». Nel 1984 Maximilian Schell ottenne una sua intervista per lo special Marlene D. della tv tedesca. La Dietrich non venne mai inquadrata, si udiva soltanto, a monosillabi, la voce. Definì Fritz Lang un uomo terribile e Orson Welles un vero genio. Viveva a Parigi. Non riceveva più. Di sé d'altronde aveva detto, anche a proposito di Lola Lola: «Non ero erotica, recitavo soltanto». Nella segregazione era più reale di quanto non fosse apparsa sullo schermo: nel 1989 alla caduta del Muro - scrissero i giornali francesi - la Dietrich telefonò a una televisione per congratularsi, citando una sua canzone, che diceva: «Ho ancora una valigia a Berlino». Alberto Papuzzi Un'immagine recente dell'attrice