A casa del nuovo re di Kabul

A casa del nuovo re di Kabul Prima uscita in pubblico del Presidente: «Non tollererò un'altra guerra» A casa del nuovo re di Kabul Parla Mojadedi: amnistia per Najibullah KABUL DAL NOSTRO INVIATO La Mercedes nera blindata, dal cui finestrino chiuso si intravede la bianca barba del Presidente, sfreccia vicino alla grande moschea, seguita da un corteo di macchine cariche di armati. Una mitragliatrice pesante, montata sul cassone di una Toyota, chiude la fila, dietro cui si gettano, come una muta di cani gialli, i taxi dei giornalisti. Dopo il lungo esilio, il professor Sibghatullah Mojadedi ha scelto il primo venerdì del suo potere per la prima, vera uscita in pubblico, per un bagno di folla a metà fra i simboli della tradizione e la modernità delle comunicazioni di massa. Ci si inerpica lungo le stradine polverose della parte Sud del bazar, nella via del carbone; si svolta nell'olezzo degli olii combustibili, nell'odore di paglia delle stuoie intrecciate. Su, su lungo il costone della montagna coperto da un affastellarsi di case basse e negozi miserabili in antri di tufo, fino al cimitero che qui chiamano Bolakho Ashorkhan Arafan. Ma è un cimitero in mezzo alle case, con le tombe nei cortili, sul ciglio delle stradine, segnate da schegge di roccia. Quando il corteo si ferma e la scorta balza fuori dalle auto, mi accorgo che sono gli uomini scelti di Masud, in divisa mimetica, a garantire per la vita di Mojadedi. Ci si inoltra in un cortile pieno di bambini. Dalle finestre spuntano volti di donne stupite. Al centro una edicola in legno finemente traforato, ma scolorito dal tempo e dall'incuria, col tetto sbrecciato in più punti. E' la tomba di famiglia dei nobili Mojadedi. Qui riposa il nonno del Presidente. E la guardia impedisce a noi giornalisti di disturbare la preghiera del vecchio. Nel grande silenzio che si è fatto attorno, si sente soltanto il rumore metallico dei fucili imbracciati e puntati verso i tetti piatti del bazar e la cresta vicina del monte. Poi il bianco turbante di Mojadedi si lascia avvicinare dai giornalisti. Con un gesto non imperioso, quasi paterno, trattiene il miliziano che strattona un fotografo. Accetta di rispondere alle domande. Si capisce che è venuto anche per questo. «Sì, la situazione migliora di giorno in giorno anche fuori Kabul. Ma risanare le ferite di questa guerra sarà impresa difficile, gigantesca. Abbiamo grave scarsità di combustibile, di generi alimentari. Stanno arrivando a Kabul 170 autocarri carichi di viveri, inviati dal governo pakistano...». E qui Mojadedi ha uno scatto imperioso: «Mi risulta che i mujaheddin di Hekmatyar hanno bloccato le colonne. Ma ho dato ordine di eliminare l'ostacolo, anche a costo di vite umane. La popolazione non può attendere». Parla un inglese fluente, con un gesticolare misurato e solenne. Si scuote di dosso la polvere fine che si è posata sulla tunica blu senza una piega. «Abbiamo riparato le linee elettriche danneggiate dai combattimenti; stiamo riportando l'ordine in città; abbiamo rimesso in funzione alcuni servizi essenziali. In pochi giorni, in questa situazione, che potevamo fare di più? Tra poco alcuni quartieri riavranno la luce. L'acqua la trasportiamo con autobotti. Certo bisognerà ricostituire gli organismi statali, utilizzando in parte i funzionari di prima e integrandoli con uomini nuovi. La stessa cosa dovremo fare con la polizia». Sembra un buon padre di famiglia, ben lontano dalle immagini che lo ritraggono con la bandoliera alla vita. Insegnava teologia prima di scegliere l'esilio. E gli è rimasto quel tono professorale, di chi è abituato a spiegare e a predicare. Una volta, ancora a Peshawar gli riferirono che Hekmatyar lo aveva accusato di contravvenire alla legge islamica. E lui rispose secco: «In tema di teologia l'ingeg ,ier Gulbuddin Hekmatyar non ha nulla da insegnarmi». Ora che è Presidente continua a chiamarlo «fratello», ma anche a ritorcere quell'accusa: «Chi combatte e procura dolore al popolo si erge contro la legge islamica e va punito». E, signor Presidente, quale sarà la sorte di Najibullah? E' forse la risposta più importante, quella che serve a misurare le sue vere intenzioni. L'aspettava. Allarga le braccia: «Non sono io a poter decidere. Lo dovrà fare il popolo afghano. Ma - che volete? - se lo condanniamo dovremo ucciderlo. E cosa ne ricaverà il popolo afghano? Penso che, se si pentisse, potrebbe essere utilizzato. Ma, ripeto, non tocca a me decidere». Poco dopo la tv indiana annuncia: «Najibullah è stato amnistiato dal consiglio ad interim dei mujaheddin che ha preso il potere a Kabul». Comunque Mojadedi il suo parere l'ha dato: in inglese, per i giornalisti stranieri, le radio lo ripeteranno in pa- shtuni e persiano. E' la risposta di un politico, non di un fanatico. Fuori dal cortile lo attende una gran folla che si assiepa sui monacelli di terra, tra le tombe. Tanti ragazzi e bambini, ma anche adulti. «Allah è grande!». E il Presidente improvvisa un discorso in piedi su un muretto. Più che capire, intuisco quello che dice. Distinguo bene solo qualcosa: sta dicendo che il nuovo governo ha ricevuto promesse di aiuti, o messaggi. In testa a tutti c'è il Pakistan, poi l'Arabia Saudita. Ma nell'elenco dei buoni ci mette anche gli «shiuravi», i russi, e la Cina. «Allah è grande!». Poi via di corsa verso la moschea, dove pregherà con il mare grigio-verde dei fedeli, assiepati nella penombra fresca in lunghe file ordinate, mentre sul marmo bianco del cortile vengono posate due bare appena arrivate, che attendono la sua benedizione. Gli echi di cannoni lontani continuano a rimbombare, radi e ammonitori. Nell'ultimo giro serale, prima del coprifuoco, corriamo verso nere volute di fumo che s'innalzano da un grande capannone ai piedi della collina di Nadir Shah, proprio a fianco dello stadio, divenuto il quartier generale delle milizie di Dostum. Un rogo immenso, dove sparisce in pochi attimi - mi dicono - il Museo di Arte popolare voluto da Zahir Shah. Qualcuno parla di sabotaggio, altri dicono che è stato un corto circuito. Ci sbarra il passo una pattuglia di miliziani alticci e minacciosi. Sono gli uomini di Dostum. Accettano di farci passare solo a patto di essere ripresi in una foto di gruppo 'òhe non' vedranno mai, le fiamme, sullo sfondo, altissime sui loro turbanti laceri, come uscissero dalle punte dei loro bazooka. Giuliette Chiesa Lancia un appello al mondo «Ci mancano viveri e combustibile» Lo scortano truppe di Masud «Fermerò gli ultra di Hekmatyar» Il presidente dell'Afghanistan il professor Slbghatullah Mojadedi di ritorno da un lungo esilio scortato dai mujaheddin di Masud

Luoghi citati: Afghanistan, Arabia Saudita, Cina, Kabul, Pakistan