l'UNITA' Quando andavamo in via dei Taurini

l'UNITA' Quando andavamo in via dei Taurini Dagli anni ruggenti del dopoguerra alla crisi che ha portato alle dimissioni di Foa l'UNITA' Quando andavamo in via dei Taurini ROMA I tavoli bianchi con i com 1 puter spenti, i posacenere 1 pieni: assemblea di reda—SJzione. Nell'ultima istantanea c'è Renzo Foa, in camicia, che legge la sua lettera di dimissioni. E così si apre un nuovo capitolo nella storia dell'Unità. Storia di uomini, di giornalisti, di comunisti, di atmosfere, di ricordi. Rigorosamente in bianco e nero quelli che compaiono in un raro e polveroso opuscolo fotografico di fragilissima rilegatura. S'intitola Come vive un giornale (19451972) e più di qualsiasi altra testimonianza riesce a far capire oggi cosa abbia rappresentato questo quotidiano. E c'è subito «Togliatti in tipografia»: un professore occhialuto ed elegante contornato da giovanotti magri e senza cravatta. Legge con attenzione la prima copia. Era severo e pignolo, il Migliore: pretendeva che i giornalisti del pei si ispirassero al Corriere delia Sem. Altra foto primi Anni 50: maestranze alle macchine, in canottiera. Da quelle rotative, più che un prodotto, usciva un simbolo, una scommessa politica e giornalistica. A sfogliare l'album dei ricordi si trova anche un teatro con drappi e pubblico incappottato. Dietro il tavolone, un giovanissimo Luciano Barca. E' la cerimonia de «La Befana dell'Unità». Ancora una volta più che le parole forse ci vogliono le immagini per dare il senso di quei riti, di quel mondo orgogliosamente separato. Lontano, ma davvero lontano dal video di Rai3 che documenta, fra trenini e cha cha dia, la «festa d'addio del giornalista comunista», tenutasi nel 1991 al dancing «Rio Grande» di Igea Marina un paio di notti prima che morisse il pei. Fra la befana e il Rio Grande ci sono tre generazioni collegate appunto dall'Unità. I cui esordi come quasi tutti gli esordi - sono eroici. A Roma, notte fonda, una camionetta pule da via IV Novembre e gira per la città portando a casa giornalisti stremati che rispondono ai nomi di Mario Alleata, Emmanuele Rocco, Maurizio Ferrara, Alfredo Reichlin, Luigi Pintor. Spesso Pietro Ingrao, capocronista, dimentica al giornale le chiavi di casa. E gli altri, rassegnati, lo aiutano a scavalcare e a forzare le persiane. Sono tutti giovanissimi, «irruenti e sfacciati» (Ingrao). «Con pochi soldi e senza orari, come missionari in Congo» (Ferrara). Più militanti va da sé - che cronisti, coinvolti in un circuito che dalla politica si estende alla vita privata. «Come direttore - ha spiegato Ingrao mi è capitato di essere consultato anche su vicende familiari. Dio mi perdoni per i consigli che ho dato». E' durissima (ma esaltante) la scuola del «giornalismo proletario». Ambiente, per certi versi, straordinario. A Milano, dove presto arriverà come caporedattore Aldo Tortorella, i fattorini, le segretarie, gli autisti, i centralinisti sono compagni che hanno conosciuto l'emigrazione, il carcere, la guerra partigiana. Il direttore, Davide Lajolo, l'«Ulisse» delle Langhe, sembra, anzi è un personaggio da romanzo. Per i corridoi si aggira «Nuvola», una misteriosa donnina di origine bulgara che pare sia stata l'amante di Dimitrov. Il giornalista (ex comunista) Marcello Venturi, autore di Sdraiati sulla linea, ne ricorda «lo sguardo duro e indagatore». «Nuvola» legge, ritaglia e traduce vecchi articoli della Pravda. E !i consegna complice ai redattori: «Notizie fresche dall'Urss». Un'abbondante memorialistica consacra quei primi anni. Nella redazione di Torino ci sono Paolo Spriano e Italo Calvino, spedito nelle risaie, sul set di Riso amaro. Ogni tanto si fa vedere Pavese. Il direttore subalpino è un comunista arcigno e triste, Mario Montagnana. Che pone la questione se sia necessario che l'Unità pubblichi foto di ragazze prosperose. Montagnana ha la fissazione di reclutare come redattori operai veri. Un giorno trova l'operaio più operaio di tutti che lavora alle Ferriere e lo assume al giornale. Quello impara il mestiere e passa alla Gazzetta del Popolo. Di lì a poco fa i suoi esordi il futuro sindaco di Torino Diego Novelli. In redazione c'è uno che suona la fisarmonica e un altro la chitarra: «E noi - ha raccontato il deputato della Rete - mettemmo su una specie di équipe di cantastorie e andavamo nelle piazze». Durante la campagna elettorale del 1953 la notte si chiude il giornale, e alle due comincia il turno della fabbricazione di enormi forchettoni di cartone da appendere agli alberi. Sono quasi tutti giovani, molti scapigliati e allegri, i soldatini di quell'Unità che nell'esercito togliattiano è considerata «la Marina», l'arma più elegante, quasi snob. Protetti da una sorta di «privilegio di libertà» (Spriano). Relativa, s'intende. Eppure indispensabile per dare respiro a un quotidiano che, per fare concorrenza a tutti gli altri su tutti i terreni, spedisce due poeti come Alfonso Gatto e Gianni Rodari ap¬ presso a Fausto Coppi. Oppure affida la cultura al grande critico letterario Giacomo De Benedetti, dedica una pagina alle donne e pubblica - con qualche discussione interna per la verità - i primi fumetti. Il partito, naturalmente, vigila. A Milano Alberganti, Colombi e Cossutta «suggeriscono» - ed è come ordinare - seminari sulla famigerata Storia del pc(b) delIVrss. A Torino - ha ricordato Guido Quaranta, oggi all'Espresso, allora redattore nella sede di corso Valdocco - si celebra perfino un processo perché un compagno giornalista si era comprato «un paio di scarpe di zebù, segnale di imborghesimento». Ma la vera azione di controllo è autorevolmente certificata alle Botteghe Oscure da una commissione presieduta da Febee Platone. Produce un bollettino settimanale (redatto materialmente da Nicola Cattedra) fitto di indicazioni e di ammonimenti. «E' arrivato il Verbo»: così, con irriverenza tutta romana, e in un contorno di pernacchie, lo saluta Maurizio Ferrara. Anche se non è pensabile che l'occhiuto bollettino finisse sempre nel cestino dei rifiuti. In ogni caso, dal punto di vista delle vendite questa strana creatura editoriale funziona. Nell'Unità in cui è Quasimodo a commentare in versi la partenza del¬ lo Sputnik e un disegno di Guttuso a commemorare il primo maggio, sono ormai cresciuti Aniello Coppola, Ugo Baduel (poi resocontista ufficiale di Berlinguer), Luigi Pintor. L'ex democristiano Mario Melloni, il «Fortebraccio» principe del corsivo, è già un mito. L'inviato Antonello Trombadori vola in Vietnam dividendosi tra corrispondenze dal fronte e delicate missioni diplomatiche. Anche i direttori, tutti destinati a diventare personaggi di peso, nella vita del pei, entrano nella leggenda di via dei Taurini; un orrido palazzone nel ■ quartiere San Lorenzo, ceduto tre mesi fa. Amatissimo è Ingrao, pirotecnico Pajetta. Del grande Alicata si ricordano ancora le urla terrificanti e il geniaccio. Al giornalista Venturi - che non l'ha proprio in simpatia - l'aspetto di Tortorella ricorda quello di un cieco, ma «un cieco malevolo che ti aspetta all'angolo della strada per farti lo sgambetto col bastone». Barca, ,che in effetti ha fatto la guerra nei sottomarini, è «il sommergibilista». Reichlin - di cui già esistono accreditati imitatori («Volare alto...». «Rilardare nel profondo...») - è «il tennista», sport considerato allora con un certo sospetto. Ferrara - siamo in clima Sessantotto - invita in redazione i contestatori Russo, Piperno e Scalzone, quelli gli piazzano i piedi sulla scrivania, lui si alza ! dalla sedia, fa il giro del tavolo e ; in silenzio glieli toghe. Delle questioni finanziarie si occupa, fin dal primo numero, il manager rosso Amerigo Terenzi. Vulcanico, colto, irrequieto. Quando non ne può più di «questa merda» - e si riferisce al palazzo che ospita anche Paese Sera - prende sottobraccio Ferrara e se ne vanno a passeggio nel vicino cimitero del Vereno. Terenzi, barocco quanto può esserlo un vero romano, si ferma sempre davanti a una lapide che ammonisce: «Quello che siete fummo, quello che siamo sarete». Nella sala fumosa degli inviati, negli Armi 60 e prini 7Q, si respira anche un che di avventuroso. Tedeschi espulso dall'Algeria in fiamme; Pancaldi dichiarato «indesiderabile» in Francia; cinque ore di interrogatorio da parte della polizia franchista per Maria Antonietta Macciocchi; De Jaco prigioniero dei colonnelli ad Atene; Vicario che se la vede brutta nel Cile di Pinochet. Il partito berlingueriano sta per fare il pieno di voti. Ma nessuno, allora, neanche si sogna di mettere in discussione la definizione di «organo del pei», né gli articoli celebrativi sui 70 anni dei maggiori dirigenti o la liturgia di piombo che accompagnava ì resoconti dei Ce. E' con l'avvio degli Anni 80 che l'Unità trionfalistica si tramuta in un giornale come minimo inadeguato, perdente. Non sono più «missionari in Congo», sdraiati sulla linea e disposti al sacrifìcio personale, i giornalisti del pei. Cambia il clima in redazione. E perfino dall'esterno si riesce a cogliere fenomeni di normalità, prima impensabili. «Cordate» di potere, per esempio, oppure strane divisioni di tipo regionale (i toscani insidiati da napoletani e siciliani). Punto effettivo di svolta, sorgente di nuovi veleni politici, personali e giornalistici, il falso scoop sul caso Cirillo (1982). Una giornalista, Marina Maresca, che sbaglia. Un direttore, Claudio Petruccioli, che viene lapidato. Un vertice, quello del pei, che non ha più una linea politica e che di fronte all'«incidente» gioca a scaricabarile. Da quel momento l'Unità è su un piano inclinato. E non basta la direzione sanguigna di un togliattiano come Emanuele Macaluso, con i suoi terribili corsivi siglati «em. ma.», a ridargliela. Si comincia a parlare di ri¬ dimensionamenti, tagli. Né basta l'arrivo di un «liberal» come Gerardo Chiaromonte, stretto fra le quotidiane proteste del partito e una redazione che ormai ha come assaporato il gusto della provocazione e dell'oltranzismo. E' comunque con il vecchio e tollerante «Gerry» che viene messo a fuoco per la prima volta il male oscuro del quotidiano. Che sta tutto in un nodo sconvolgente: per riacquistare una formula e affrontare il mercato l'Unità deve sganciarsi dal pei. Si fa presto a dirlo. E infatti, con il penultimo direttore politico, Massimo D'Alema, sono assemblee, sospetti, rancori, ambizioni, ripensamenti, piani, dispute intrecciate con quelle della «Cosa» e poi del pds. E come se non bastasse, sul tutto risuona la bomba satirica di Tango. L'inserto rosa di Sergio Starno e della sua banda di allegri distructors esplode tirandosi appresso, sì, un aumento di copie, ma anche un'infinita, terribile serie di polemiche: Natta nudo, sbertucciato, Occhetto delegittimato in partenza. «E' satira», dicono. Ma intanto c'è chi grida al cupio dissolvi. L'ultimo Tango arriva al numero 127. Qualche tempo dopo sostituito dalle pagine verdi del Cuore di Michele Serra, che però all'inizio del 1991 attua (con successo) uno sganciamento. Così come, con la direzione di Renzo Foa, un giovane-vecchio del giornale, il primo direttore non politico, l'Unità si sgancia sembra definitivamente - dal partito. La stagione di libertà giova senz'altro al giornale. Anche se, nei contenuti, c'è da battagliare giorno dopo giorno, tra ripicche e minacce. Coi giornalisti che non vengono più fatti entrare nella sala del Ce. Oppure con D'Alema che preannuncia l'insediamento di una commissione politica «per il giornale» e Foa che gli risponde di mandarla pure a via dei Taurini, la commissione: «Così noi la mettiamo in una stanza e poi chiamiamo il 113». Comunque, a testimonianza di quella faticatissima autonomia, c'è quella scritta sotto la testata: «quotidiano fondato da Antonio Gramsci». «E allora i soldi - osserva un giorno Occhetto fateveli dare da Gramsci». Pareva scherzare, il segretario giovialone. E invece no. E la storia dell'Unità continua. Filippo Ceccare!li Togliatti in tipografia, giornalisti come missionari Lajolo direttore a Milano, Calvino inviato sul set di «Riso amaro». A Torino processo a un redattore 4mborghesito»: si era comprato scarpe di zebù Sopra, Palmiro Togliatti: voleva che i giornalisti del pei si ispirassero a quelli del «Corriere». A fianco, una manifestazione della Cgil dell'84, con Natta, Tato e Berlinguer: il segretario ha in mano un numero speciale dell'«Unità» A destra, Italo Calvino: nei primi anni del dopoguerra era redattore a Torino. In alto, Salvatore Quasimodo, che cantò sull'«Unità» l'impresa dello Sputnik. Qui sotto, una foto di dieci anni fa: il terzo redattore da sinistra è Renzo Foa Sopra, Paolo Spriano: lavorava alla redazione torinese. A fianco Davide Lajolo. A sinistra e in alto, prime pagine storiche: quella dedicata a Gagarin e quella dell'attentato a Togliatti