Con Cossiga sull'aereo dell'esilio

Con Cossiga sull'aereo dell'esilio Il nostro inviato con il Presidente nel viaggio per Dublino subito dopo le dimissioni Con Cossiga sull'aereo dell'esilio «Imiei ricordi, i miei errori» INTERVISTA L'ULTIMO DIARIO IN VOLO PER DUBLINO DAL NOSTRO INVIATO Francesco Cossiga sale le scalette del «Gulfstream» che ci porterà a Dublino. Si è dimesso da poche ore. All'aeroporto militare di Ciampino, trentunesimo stormo, tira un po' di brezza. Si ferma sull'ultimo gradino e saluta la piccola folla. Inevitabile ricordare la partenza di Umberto re di maggio. Va in vacanza, è vero, ma c'è una punta d'esilio in questa partenza: è un Capo di Stato che rinuncia al suo ruolo e vola lontano. L'evento ha una sua solennità, e anche una sua familiare intimità. Entra nella cabina, sorride, è stanco, stringe le mani, crolla sulla poltrona. Si chiude il portello. Si alza la prora verso Dublino e così è finita l'ottava presidenza della Repubblica: «externator», «il picconatore», l'uomo che ha fatto impazzire l'Italia per due anni, siede sulla poltrona dall'alto schienale in grisaglia chiara, bretelle, camicia bianca e cravatta a righe diagonali rosse e blu. Mi ha invitato ad accompagnarlo in questo viaggio con Ludovico Ortona, suo stremato portavoce. D'altra parte, come si fa a portare la voce di Cossiga? L'invito dell'ex Presidente mi permette di concludere un ciclo: quello nato fra il giornalista e il Capo dello Stato casualmente il 10 gennaio 1991 a Gela, in Sicilia, e che termina nel cuore di una notte irlandese, carica di pioggia. L'ultimo saluto è all'una di notte e vediamo Francesco Cossiga che sparisce oltre il vetro dell'aeroporto, un piccolo uomo solo, con soprabito e un cappelluccio. Fa freddo e il luogo, per la stagione, sembra deprimente. Ma Cossiga esce di scena così come ce l'eravamo immaginato: con cappotto e cappello dopo molto rumore. E probabilmente, a scorrere i giornali di ieri, non è stato, il suo, un «molto rumore per nulla». E ora se ne va in cerca dei suoi teologi, preda dei suoi candidi vizi intellettuali. Certo, va via e non sparisce. Cossiga rientrerà in Italia e tutti si chiedono che farà, in che modo e in che veste tornerà fra trenta giorni. E' naturalmente la prima domanda che gli abbiamo posto sull'aereo, mentre ancora in lontananza impallidivano le luci di Roma e comparivano un mare livido e un sole che sarebbe rimasto per due ore sulla linea dell'orizzonte, senza tramontare. Allora, che farà? Lasci perdere, se possibile, i convenevoli: tornerà o no alla politica, e come? Si toglie la giacca, si slaccia il primo bottone della camicia, si toglie la cravatta e pensa un attimo prima di rispondere. Gli portano una cena leggerissima di cruderie. Beve un dito di vino rosso e acqua minerale. Non tocca pane. Poi dice: «Beh, sarò sincero e franco con lei. Tornerò a fare politica soltanto se si aprisse davvero un confronto fra riformisti e non riformisti. Ma dovrebbe essere un confronto vero, non a chiacchiere. E i riformisti, gente seria che vuole davvero riformare. Allora sì: forse scenderei in campo con loro». Ma lei, Cossiga, guiderà uno schieramento? Fonderà un partito? Guardi, sono le solite domande da cui mi sento sempre mitragliato. Non lo so, stiamo a vedere, guardiamo che succede e come andranno le cose. Per ora, l'unica cosa che posso immaginare è che terrò conferenze, scriverò articoli, chiederò la parola ai convegni... Deputati e senatori prevedono che un certo numero di schede porterà il suo nome. Bah. Non mi pare un argomento di conversazione. Che cosa vuole che le dica. Lei che farà? Io? Io sarò da qualche parte in Europa. Il mio programma politico immediato è questo. Primo: Dublino. Attività: ciondolare per strade e biblioteche. Ho portato con me «Gente di Dublino» di Joyce e altri libri. Filosofia, storia... E poi tutti al Rayan Pub... Cos'è? Il più grande pub. Faremo scrupolosamente il giro dei pub. Grandi cose. Faremo grandi cose. Il giro dei pub è una di queste. E si informerà di quel che succede in Italia? Telefonerò ogni tanto per sapere. I miei collaboratori mi manderanno qualche fax di rassegna stampa... sa, conserverò ancora dei privilegi: l'autista, le fotocopie. Vedrà i suoi figli? Sì. Una sta a Londra e l'altro... no, non lo dico altrimenti comincerebbe la caccia. Perché la sua famiglia è stata così tenacemente lontana da lei? Per un patto di ferro fra di noi: quello del reciproco rispetto assoluto. Ha sentito spesso i suoi figli? Tutti i giorni. Mi hanno dato anche dei consigli e devo dire che sono sempre stati solidali con me. Le hanno mai dato una tirata d'orecchie? Sì, quando ho dato a Occhetto dello zombi coi baffi. Non gli è piaciuta la battuta. Neanche a ine. E invece ebbe poi una curiosa fortuna. Io non davo dello zombi a Occhetto come persona, ma alla politica dei morti viventi che stava facendo. E l'apocalittica inimicizia del «manifesto»? E il disprezzo con cui la tratta Luigi Pintor, sardo come lei, che effetto le fa? E' un mistero. Probabilmente devo avergli sgarrettato il gregge, rubato il bestiame, tagliato le viti e incendiato i pascoli... Qualcosa del genere, a giudicare dalla virulenza. Sa, l'acredine politica ha qualcosa di pastorale, talvolta. Che cosa leggeva nei giorni precedenti le sue dimissioni? La storia del ritorno di De Gaulle sulla scena politica francese... Il solito Cossiga gollista? Tutti sanno che semmai avrei fatto il Coty, quello che aprì la strada a De Gaulle. Ma mi arrovellavo: riuscirò a far fare il governo, non lo farò... Così mi è tornato fra le mani l'affascinante comunicato con cui il generale cambiò le istituzioni francesi... Cioè? Lui non fece consultazioni. Chiamò Michel Debré e gli disse: senti un po', come faresti tu un governo, se io ti nominassi? Quello ci pensò e poi tornò: generale, se lei mi nominasse io lo farei così e così... e discussero. Poi, essendo d'accordo, De Gallile lo nominò. Io avevo già fantasticato una cosa del genere... E il suo Debré? Chi era? Avevo pensato alcuni nomi, ragionavo soltanto. Si dice che lei avrebbe dato un incarico esplorativo a Giorgio Napolitano se fosse stato eletto presidente della Camera. Esplorativo no. Non soltanto per Napolitano: per nessuno. Questa volta io non avrei neanche affidato l'incarico: avrei fatto direttamente la nomina, punto e basta, senza esplorazioni. Chi avrebbe nominato? Non avevo deciso. E infatti non ho deciso. Ho deciso di andarmene io, il che certifica che non lo sapevo. De Mita nega che il suo successore avrà più potere di lei e sostiene che lei poteva fare benissimo il governo. Dice che la sua tesi secondo cui il Presidente deve disporre del potere-minaccia di sciogliere le Camere è una stupidaggine. Non si tratta soltanto del potere di scioglimento. Conta il fatto che un nuovo Presidente dura sette anni: e per questo è forte. E ha poi parlato di nuovo con lui? Ci siamo sentiti tre volte: E ha voluto dieci cravatte. Gli ho spiegato che era stato proprio lui a convincermi di lasciare. Lui mi diceva che cosa avrei dovuto fare. Io gli davo ragione, ma capivo che non avrei potuto fare quello che lui consigliava: govèrno forte con un programma da presentare in Parlamento... Chi le proponeva De Mita? Nessun nome: soltanto il metodo. Quanto ai nostri rapporti personali, gli ho detto che per quanto mi riguarda tutte le nostre polemiche sono finite. Ha detto: anche per me. Ma lei ha lasciato la sua carica in un momento in cui la sua immagine appariva forte, molto forte. Perché? No: ero debolissimo. Se fossi stato forte i due generali non avrebbero fatto le cose che hanno fatto. Quello è stato una prova ulteriore della mia debolezza. Che cosa rimpiange di aver fatto? Di aver dato la sensazione, combattendo posizioni politiche e atti politici, di aver attaccato le singole persone. Questo è stato un difetto grave. Mandò mai a Stefano Rodotà i pantaloni di pelle rinforzati, quando sosteneva di averlo preso per i fondelli? Li feci acquistare, ma poi i miei collaboratori, qui, mi costrinsero a rinunciare. Mentre mandò i trenta denari di cioccolato all'onorevole Mazzola... Ah, ma cioccolato di prima qua¬ lità. Cirino Pomicino- mi ha chiesto di invitarla a una grande convention di tutti ì «cossigo-lesi», quelli che lei ha preso a picconate in fronte. Verrà? Ah, ci può contare. A un altro signore che io avevo nominato a una carica importante quando ero presidente del Consiglio e che mi ha sparato con acredine inaudita, ho mandato «Il pugnalatore» di Sciascia suggerendogli di scrivere lui stesso come sottotitolo «una autobiografia». Non mi ha risposto. Chi ha risposto ai suoi attacchi con maggior spirito? Antonio Gava. Io lo attaccavo e lui mi rispondeva con ostentato ossequio, esagerata deferenza, oppure diceva: state attenti che chiamo Cossiga. E anche Nicola Mancino: era la controffensiva della cortesia, io li strigliavo, e loro si divertivano a moltiplicare la deferenza. Ludovico Ortona dice che lei in queste ore ha avuto l'impressione di assistere al suo funerale. Ho detto che sembravano le prove generali. Ma confesso di avere avuto una fantasia che penso sia molto comune: un ciclo della mia vita si compiva. E ho pensato: e se la fine di questo ciclo coincidesse davvero con la fine della mia vita? Se fosse un segno? Tutto qui. Le fantasie sono la valvola di salvezza dell'essere umano, e questa fantasia di morte mi ha aiutato a scaricare la tensione. Sembra stanco morto. Sì. Ma non per la decisione presa. La stanchezza è venuta dopo. Qual è stata l'ultima firma di Cossiga ancora Presidente? Una concessione di cittadinanza. Qual è il testo di dimissióni che lei ha firmato? Dice così: «Io, Francesco Cossiga con il presente atto mi dimetto da Presidente della Repubblica. Dato dal Palazzo del Quirinale in Roma», e la data. A quel punto i giornalisti sono scoppiati in un applauso e io mi sono commosso. Erano tutti lì, i miei amici giornalisti che ho perseguitato per tanto tempo, che mi hanno seguito nei viaggi, che mi hanno atteso per ore. Quello è stato un momento veramente intenso. E poi i ragazzi della scorta: carabinieri e poliziotti dei corpi speciali che avevano l'occhio umido di pianto. Li avrei presi a sberle, se non avessi avuto l'occhio umido anch'io. E Andreotti? Mi sembrava molto teso, preso dal suo ruolo. Rispettoso. Le parrà strano, ma fra noi due sono sempre stato io a considerare lui il signor Presidente. E' stato lui il mio capo del governo quando ero ministro. E sono più giovane di lui. Oggi, per la prima volta, sentivo che nel suo animo, emotivamente, i ruoli erano invertiti: lui era compreso nel suo rispetto per il Capo dello Stato che si dimetteva. Con Forlani com'è andata? Ci siamo sentiti al telefonò, gli ho detto: Arnaldo, l'amicizia e l'affetto restano quelli di prima. Ha risposto: anche per me. Gli ho detto che non mi sono iscritto a nessun gruppo al Senato e che quindi sarò al gruppo misto. Ho mandato una lettera al «Popolo». Sono e resto un cristiano democratico, e liberale, ma non mi iscrivo alla democrazia cristiana, questo no. E con Occhetto? Lo stesso. Gli ho detto che lo informavo come capo del maggior partito di opposizione e mi ha ringraziato e mi ha fatto gli auguri più sinceri. Poi oggi l'ho richiamato e gli ho detto: guarda Achille, oggi si chiude un periodo importante nella mia vita, e non voglio lasciare arretrati. Anche a te voglio dire che vado via lasciandomi alle spalle ogni polemica personale. E lui ha risposto che anche per lui era così, e che al mio ritorno ci saremmo visti. Ma Occhetto la voleva in galera, non è questione di polemica politica. Sì, sì, eh! Ma quella è politica. Ha chiamato tutti i segretari di partito? Tutti, escluso Leoluca Orlando. Non avevo voglia di altercare, francamente. E Pennella? Palmella è stato l'unico ad attaccarla in modo sprezzante per il suo discorso in televisione, a proposito dell'armata Brancaleone. Ma lui è fatto così. Scalfaro è stato una sua invenzione e non ha gradito vederselo trattare così. Io d'altra parte esprimevo un giudizio politico sulla maggioranza e non sull'uomo. E l'ultima picconata sui militari? Non sui militari: su due militari e per amore dell'Arma dei carabinieri. Veder trattare l'avanzamento degli ufficiali dell'Arma nel modo che ho potuto constatare con i miei occhi è una cosa che mi ha ferito ancor più della mancanza di fiducia che hanno avuto nei miei confronti stando zitti. Ma lei ha trattato a pesci in faccia due specchiati galantuomini. Proprio per questo: io avevo sempre avuto una fiducia assoluta in quei signori. Lei sa come stanno le cose: sulle promozioni dei carabinieri, decide in definitiva l'esercito. E dunque decidono anche le pressioni dei partiti... La lottizzazione non è un'esclusiva Rai... Tutt'altro. Allora io ne ho fatto una questione di principio. Ho chiesto per il comando della mia sicurezza il miglior ufficiale di cui disponesse l'Arma. Non ho fatto un nome: ho detto voglio il migliore. Me lo hanno dato. E' fra l'altro un ufficiale e un professionista impagabile, perfetto. Bene: arriva il momento delle promozioni, che sono a numero chiuso, e questo ufficiale non viene promosso. Bocciato. Che devo dire? Che i casi sono due... O non è vero che mi avete dato l'ufficiale migliore in assoluto, così come vi avevo ordinato... Ecco, e quel che segue. Loro del resto avevano anche un disegno... E poi dietro c'è un grosso problema: l'autonomia o meno dell'Arma dei carabinieri. Io sono per una sua autonomia... Le è stata comunque rimproverata questa sua ultima rissosita, questa ennesima intrusione e il fatto che questa Repubblica era nata con lo stile Einaudi... Einaudi! Il primo picconatore. L'hanno santificato per negarlo. Lei lo sa che Einaudi convocava lui stesso le commissioni d'avanzamento degli ufficiali prima che decidessero e si faceva dire i nomi, sui quali dava il suo insindacabile parere? Guardi che sta tutto scritto, sa? Non le racconto balle. Che effetto le ha fatto vedersi elogiare da Scalfari per il suo discorso d'addio? Mah, l'effetto che credo ha fatto a tutti. Ha scritto che finalmente io avevo capito. Ero io che finalmente avevo capito? Ma.direi che finalmente aveva capito lui. Io ho detto e ripetuto quel che ho sempre detto e ripetuto. Forse non aveva mai creduto alla mia sincerità, alla linearità della mia posizione, ma questa è cosa che riguarda lui e i suoi amici, non me. Io quello ero e quello resto. Caro Presidente, lei era, con tutto il rispetto, un imbranato da far paura. E anche rissoso. Ho imparato, per quel po' che si può imparare. Ho usato le armi di cui disponevo. Ho usato anche la mia pochezza, la mia miseria, il mio temperamento che è quello che Iddio mi ha dato. Sa: non bisogna poi essere così superbi da fìngersi diversi da come Dio ci ha voluto. Bisogna aver rispetto del prossimo, questo sì. Ma io ho mancato più spesso di rispetto a me stesso. E' stato accusato di aver stravolto le sue visite all'estero, intervenendo sulla politica italiana. Si pente? Ma di che? Io parlavo all'estero, ma parlavo ai giornalisti italiani che venivano al mio seguito, come lei adesso. E allora? Dov'è il dramma? Dica la verità: lei ha fatto un gran casino. Pensa che ne verranno buoni frutti o frutti avvelenati? Io ho dimostrato che ci portavano a tavola frutta avvelenata. Ho mostrato che cos'è la colica da avvelenamento. Mi sembra che adesso tutti vogliano fare i medici, e parlino di bonifiche: questo è un buon segno, mi pare. Non sarà tutto merito mio, ma... Si allacci la cintura, che atterriamo. Ortona, mi passa la rassegna stampa? Sa che ancora non ho letto i giornali di oggi? Che dicono? Paolo (Suzzanti Si toglie giacca e cravatta, slaccia la camicia e annuncia «Tornerò in politica solo se le riforme si faranno sul serio» «Dove ho sbagliato? Nell'aver dato la sensazione di combattere non le idee e le posizioni politiche ma gli uomini» La partenza di Cossiga (foto grande) In alto: Rodotà A destra: Cirino Pomicino La partenza di Umberto di Savola «re di maggio» verso l'esilio