IL SUO GRIDO di Angelo Dragone

IL SUO GRIDOIL SUO GRIDO Così ha cercato di dare un volto all'angoscia del nostro tempo F RANCIS Bacon, più di ogni altro artista, ha saputo dare un volto all'angoscia esistenziale del nostro tempo. Nelle Crocefissioni come nelle carcasse degli animali, nelle figure come nei nudi dai visi stravolti da una smorfia sofferta, era consapevole di. aver dato una chiara «metafora del dolore e della disperazione». «Dipingo 0 grido dell'uomo», aveva anche spiegato davanti alle oltre centoventi sue opere esposte nel 1985 alla Tate Gallery di Londra, confidando però di aver sempre dipinto per se stesso, «perché mi eccita»: rispondendo a un suo oscuro bisogno, senza neppur rendersi conto, a volte, di quel che le sue immagini potessero esprimere. Tra i viventi della seconda metà del secolo era considerato il pittore più grande. «L'unico - per Picasso - di frónte ai cui quadri mi sento ancora scolaro». E Bacon - che detestava la «linea» di Matisse, ricambiava in qualche modo l'apprezzamento: «Con Giacometti, Picasso è l'unico ar¬ tista del XX secolo che salverei». Ma era pronto a definire Picasso «il miglior scultore del secolo», piacendogli Giacometti «per i suoi disegni». Doveva esser sottinteso che il regno della pittura toccava a lui che, oltre tutto, della pittura amava il rigore. «Non nella vita, ma nella pittura sì». Dell'Irlanda dov'era nato, diceva non vi fosse niente da imparare «se non a disegnare cavalli». Forse per questo da Londra, dov'era giunto a sedici anni, era poi andato a Berlino, facendo conoscenza con il realismo di George Grosz, Otto Dix, Max Beckmann. Sul finire degli Anni Venti, fu Parigi a rivelargli Picasso. Gli fece una grande impressione e fu, anzi, a quel punto che decise di darsi alla pittura. Vi giunse dunque da autodidatta, guardando non a una modella in posa in un'accademia, ma rifacendo mentalmente la testa della vecchietta che, nel film La corazzata Potèmkin di Eisenstein, appare sulla scannata di Odessa. Nulla, dunque, di scolastico. «Non ho mai disegnato in vita mia», ammetteva, spiegando anche che, nel mettersi al lavoro di buon mattino, gli veniva naturale prendere in mano i pennelli, non le matite. Mai che, parlando della sua pittura, dicesse «i miei quadri»; c'erano soltanto delle «immagini». Agli inizi, fine Anni Venti, sentì l'influsso della nuova oggettività tedesca e del Surrealismo. Memorizzò nella propria immaginazione il mondo fantastico di Max Ernst, con quel tanto di naturalismo che fino a un certo punto potè anche aver condiviso con Graham Sutherland. Bacon si può dire abbia completato la più personale sua fisionomia sul finire dell'ultimo conflitto mondiale quando, nel '44, affrontò il pubblico con i Tre studi di figure per la base d'una Crocefissione, dalle immagini inquietanti, per quanto di mostruoso vi si poteva esprimere, sconcertando il pubblico. Eppure, Bacon si sentiva attratto dalla tradizione, dall'esempio degli antichi. Guardò a Griinewald nella Crocefissione del 1945-46 e nella famosa Maddalena (che come altre figure si ripara sotto un ombrello) e lavorò a lungo sull'Innocenzo X di Velàzquez, pur senza conoscerne l'originale conservato nella Galleria Dona di Roma. Ed è con uno di questi dipinti, così straordinario nella sua reinvenzione, che Bacon è presente nelle raccolte vaticane, cui è giunto come dono personale dell'avvocato Agnelli a Paolo VI quando aveva sentito il bisogno di integrare le testimonianze d'arte del passato con le espressioni più alte, e spesso più sofferte, del mondo d'oggi. Potè dipingere un paesaggio pensando al lungomare di Montecarlo, o cavare uno Studio di nudo, in una prospettiva disegnata in bianco su fondo nero, da un fotogramma di Muybridge. Ma anche in alcuni ritratti - da quello di Lisa (1955) a quelli dedicati a Van Gogh (il cui epistolario era diventato una delle sue letture predilette) - si continua a sentire la potenza di un coinvolgimento che, al di là di certe suggestioni offertegli da Bunuel o Stroheim, l'artista ha reso nelle sequenze di un originale repertorio di immagini. A un certo momento sembrò che non urlassero più, mentre anche il gesto potè raccogliersi nella figura, quasi all'interno d'un contorno, e come gravate, oppresse, ma colme d'una stupefacente tensione, che fino all'ultimo ha continuato a esprimere non soltanto le fantasie dell'artista, e qualche suo sogno tinto d'azzurro, ma la vita dell'uomo che, in quei suoi volti disfatti, ha continuato a far sentire, anche al di là d'ogni colore vivo, il senso d'una disgregante disperazione. Angelo Dragone

Luoghi citati: Berlino, Irlanda, Londra, Montecarlo, Odessa, Parigi, Roma