Kaboul, fuoco sul presidente

Kaboul, fuoco sul presidente LA RESA DEI CONTI TRA LE FAZIONI AFGHANE Breve tregua per l'arrivo del Consiglio islamico poi riprendono gli scontri Kaboul, fuoco sul presidente Cannonate contro il nuovo governo KABUL dal nostro inviato Un piccolo esercito - almeno mille uomini - ha scortato a Kabul il nuovo governo islamico: il presidente Sibghatullah Mojadedi e una ventina dei 51 membri del Consiglio dei ministri. L'ultimo tratto, da Jalalabad a Kabul, è stato compiuto ieri mattina da una colonna di 122 mezzi: Mercedes blindate e carri armati; Toyota da trasporto nuove di zecca, con targa pakistana, e variopinti autocarri stracarichi di mujaheddin in perfetta tenuta da combattimento, tute mimetiche, armi luccicanti. Sulla prima vettura, a sbracciarsi per farsi riconoscere, a salutare raggiante, c'è il ministro degli Esteri del passato regime, Abdul Wakil Cerca - ma chissà se ci riuscirà - di essere uomo di due stagioni, come molti generali che si recano, in alta uniforme, a portare il deferente saluto al nuovo Presidente. L'entusiasmo dei vincitori esplode incontenibile attorno alla palazzina delle Nazioni Unite dove Mojadedi fa la sua prima sosta a Kabul dopo 14 anni di esilio: mezz'ora di raffiche e cannonate a salve. Un giovane dal perfetto inglese è mescolato alla folla dei militari che circonda la palazzina. Si scopre che è Sidik Mojadedi, 21 anni, tredici dei quali vissuti a Peshawar, dove ha studiato matematica e statistica ed ha conquistato il brevetto di pilota commerciale. Figlio del Presidente, uno dei sette, uno dei sei rimasti dopo che il maggiore è stato assassinato. Non conosce Kabul: «L'ho lasciata che avevo tre anni». E si guarda attorno con aria smarrita, emozionato. Ma non sprovveduto. Alle domande politiche non risponde, salvo ad una: «Sì, mio padre ha buoni rapporti con Ahmad Shah Masud». Tutto attorno è una sparatoria assordante, con grida ritmate di «Allah è grande». Sono tanti, ma sono gli unici colpi della mattinata. Le batterie di Gulbuddin Hekmatyar erano state messe a tacere nella notte da una furibonda offensiva di artiglieria che aveva permesso alle milizie del generale Dostum di conquistare la colli- na strategica di Nadir Shah. Quando siamo tornati, nella tarda mattina, sul luogo dello scontro, i «bravi» di Dostum erano entusiasti della vittoria. Indicavano orgogliosamente le montagne a Sud: «Quelli di Hezb li abbiamo ricacciati laggiù!». La divisione dei compiti era stata precisa: lo Jamiat di Masud aveva martellato coi razzi, da lontano. Le milizie di Dostum avevano fatto il lavoro ravvicinato, quello più rischioso, risalendo la collina. L'ex alleato di Najibullah doveva dimostrare sul campo la sua fedeltà al nuovo leader. E lo ha fatto. Ma lo spettacolo attorno era disastroso: rami tranciati, voragini, case in fiamme. Perfino il mausoleo di Nadir Shah era irriconoscibile, sbrecciato, la cupola divelta in più punti. Più sotto, all'inizio della via Maiwand, i segni della risposta Hezb: palazzi sventrati e fumanti per quasi 500 metri, tutti i negozi dei grossisti di tappeti ridotti,ad ammassi di rovine. E la collina è ora impercorribile. Ritirandosi gli Hezb hanno minato i pendii e bisogna camminare solo sui viottoli battuti dai carri armati di Dostum che ora dominano l'altura. Il governo islamico è dunque arrivato in città, ma Masud, il fiero vincitore, il «ministro della Difesa», ancora non c'è. E il «primo ministro» Hekmatyar è ancora appostato, le armi in pugno, contro il «suo» governo, oltre le montagne. Che la situazione rimanga ancora estremamente provvisoria lo si è visto nel pomeriggio, quando i giornalisti sono stati convocati nel palazzo del ministero degli Esteri per assistere alla cerimonia del trapasso dei poteri tra vecchio e nuovo regime. Nonostante il caos, tutto era stato pensato per un passaggio a regola d'arte costituzionale. Hanno preso la parola, nell'ordine, il presidente del Consiglio costituzionale, il primo ministro uscente, i presidenti delle due Camere, il procuratore generale. Tutte figure di secondo piano, tutti per dire la stessa cosa: ce ne andiamo, viva il governo islami- co che ci succede, Allah è grande! Mancava solo il Presidente uscente Hatef, che ha preferito disertare la seduta. Il prof. Mojadedi ha accettato benignamente la resa e ha voltato pagina con un discorso prudente, di chi sa che le questioni essenziali sono ben lungi dall'essere risolte. «La guerra ci fu imposta - ha detto -, fu difficile, ma la giustezza della causa ha reso agevoli gli immensi sacrifici sopportati»." Ha attribuito la lotta dei mujaheddin non solo alla sconfitta dei sovietici, ma anche «alla distruzione del comunismo». Ma non ha nascosto che «la gioia di questo passaggio dei poteri è offuscata dallo spargimento di sangue.». Ha fatto appello a Hekmatyar, senza mai nominarlo, ad «abbandonare la violenza e a collaborare». Ha promesso «amnistia generale», invitando «tutti i fratelli islamici a unirsi per la ricostruzione del Paese e per risparmiare altre sofferenze». «Pashtuni, Tagiki, Uzbeki, Sciiti e Sunniti - ha ancora detto Mo¬ jadedi - sono stati assieme per secoli». La mina etnica rimane pronta a esplodere in ogni momento. Ma il nuovo Presidente ha avuto anche accenti duri: «Chi usa la violenza deve cessare e adempiere la volontà del popolo. Si tratta di azioni che contrastano con la legge islamica». E non ha trascurato la politica estera, ricordando «cambiamenti nel mondo che sarebbero stati impossibili in cento anni» ed elencando, nell'ordine, fra coloro che hanno aiutato la resistenza armata all'invasione comunista, «il Pakistan, l'Arabia Saudita, l'Iran, le Nazioni Unite, e i Paesi occidentali». Poi, premuto dai giornalisti, riluttante, ha risposto, in inglese, a due sole domande. La sorte di Najibullah «sarà decisa dal popolo afghano». Il che significa che per lui non c'è amnistia, almeno per ora. E, per quanto concerne il «fratello» Hekmatyar, si è detto sorpreso del suo atteggiamento: «Aveva accettato l'accordo, non ci aspettavamo un tale comportamento». Colpi di cannone hanno sottolineato le sue parole. Non erano di festa. Le raffiche di gioia che hanno seguito l'allontanarsi della sua Mercedes blindata si sono subito mescolate con ima violenta sparatoria esplosa proprio nel centro della città tra Hezb e Jamiat. La città aveva approfittato della pausa per tornare pian piano alla normalità. Le vie si erano rianimate, qualche negozio riaperto. Ma è durata poco. Il ritorno in albergo, tra il fischiare delle pallottole e il fuggi-fuggi generale, ci ha costretto a una lunga deviazione periferica; si sparava attorno al ministero degli Interni, ancora occupato dagli uomini di Hekmatyar. Di cui si aspetta ora la parola definitiva. Mojadedi e Masud - è evidente - hanno un largo appoggio internazionale. Ma Hekmatyar non sembra intenzionato a venire a Kabul per insediarsi "6 stringere la mano a Masud. Il che significa ancora guerra. Giuliette Chiesa Le truppe ribelli di Hekmatyar sono state cacciate sulle montagne ma continuano le incursioni nella capitale t al Mujaheddin danzano sul letto dell'ex presidente Najibullah. A destra, Sibghatullah Mojadedi, capo del consiglio che guida provvisoriamente il Paese (foto ansa-apj

Luoghi citati: Arabia Saudita, Iran, Kabul, Pakistan