Dorotei senza cariche, dc nel caos di Augusto Minzolini

Dorotei senza cariche, dc nel caos Dorotei senza cariche, dc nel caos E Marini lancia la candidatura di Martinazzoli ROMA. La de è nel caos. Antonio Gava deve sacrificarsi in nome dell'unità del partito e lasciare la presidenza del gruppo del Senato a Nicola Mancino, ma intanto l'uomo più potente della de non ha un posto nel vertice di piazzadei Gesù: né nell'ufficio politico, né nella direzione. Gerardo Bianco riesce nell'impresa di diventare capogruppo alla Camera dei deputati e all'ultimo momento si scontra con un Giovanni Goria, candidato dai ribelli, dell'ultimo consiglio nazionale, ma senza chance. Ed intanto Franco Marini lancia la candidatura di Mino Martinazzoli alla segretria del partito in un convegno a Mantova e chiede il congresso per il prossimo autunno. Stessa cosa fa nel sud Clmente Mastella insieme agli altri insorti della sinistra, mentre Francesco D'Onofrio scomoda lo stesso nome anche per la presidenza della Repubblica. Lui, il candidato Martinazzoli, non si tira indietro e accetta il ruolo usando il suo linguaggio. «Chi ha avuto in questi anni più di comando e più di potere - dice - ha il dovere di essere più generoso se almeno ha la coscienza che, anche in politica, ciò che è degno è dare il più e il meglio, e il meno portar via». C'è una de in preda al fattore «I», cioè all'imprevedibile, secondo un'espressione coniata da Luigi Granelli, «una de dove tutti giocano le loro carte, hanno le loro ambizioni e i loro disegni, che finiscono però per favorire soluzioni del tutto inaspettate». Così, all'indomani della vittoria delle Leghe, piazza del Gesù non esita a darsi una delegazione istituzionale, è la critica di Giuseppe Biasutti, «tutta targata Avellino». «Tranne il segretario Forlani spiega l'ex-colonnelo di De Mita in Friuli -, il presidente del partito e i due capigruppo sono di lì». E' stata una scelta? Ma no, neanche per sogno, è stata la ri¬ sultante di una serie di giochi incrociati, della testardaggine di Nicola Mancino a non voler lasciare quel posto, della volontà di Antonio Gava di non assumersi la responsabilità di una rottura. Risultato: l'unità formale è salva, ma sotto sotto i dissapori e i rancori aumentano, pronti ad esplodere proprio di fronte a prove impegnative come l'elezione del nuovo presidente della Repubblica e la formazione del nuovo governo. Insomma, una de divisa nei fatti, come avviene puntualmente ogni sette anni. E come sempre non c'è settimana che un capo democristiano non cada in qualche tranello: a Forlani è andato male il tentativo di dimettersi dalla segreteria per partecipare più liberamente alla corsa per il Quirinale; i nomi di altri due capi de, Andreotti e De Mita, sono stati sciupati, sia pure in modo diverso, nell'elezione dei presidenti di Camera e Senato; e in ultimo, ieri, Antonio Gava è rimasto al palo e i dorotei non hanno più nessun rappresentante nella delegazione del partito. E malgrado Forlani non si stanchi un attimo di gettare acqua sul fuoco delle polemiche interne, non mancano segnali di nervosismo e d'irrequietezza del partito di maggioranza relativa. La cronaca dell'assemblea dei senatori de di ieri, che ha portato alla candidatura unica di Mancino, ne è costellata. Si parte con il solito colloquio tra i due aspiranti: Mancino ripete che vuole rimanere al suo posto, Gava rinuncia alla candidatura. Fino a quel momento il leader doroteo aveva sperato in un intervento di De Mita che convincesse Mancino, suo fedelissimo, a recedere. Tramontata questa speranza Gava annuncia all'assemblea dei senatori che non aspira più a quel posto: «Io ho sempre detto che non voglio essere un candidato di rottura. Il segretario è stato accusato di pressioni nei gruppi, ma tutti sanno che non se ne occupa...». E da questa prima critica velata al quartier generale si scopre che il capo doroteo accetta il sacrificio ma senza entusiasmo. La riunione va avanti: Piccoli chiede di congelare il tutto, di soprassedere sulle elezioni dei nuovi capigruppo e di rinviarle all'indomani della nomina del nuovo Presidente \ della Repubblica; Mancino si oppone, «appuntamenti del genere - obbietta - richiedono capigruppo autorevoli anche nel mandato». Interviene Forlani con il richiamo all'unità del partito, definisce Mancino un ottimo capogruppo che «non c'è bisogno di cambiare», ricorda che per regolamento i capigruppo vanno eletti. Sentito il segretario Andreotti cambia repentinamente l'orientameto dei suoi: la mattina alle 9,30 nello studio di via Condotti il fedele Pomicino aveva dato ai senatori della corrente l'ordine di votare Gava, ma il «divo Giulio» non si scompone e in assemblea si lancia in un panegirico di Mancino. E del problema che Gava rimane fuori dall'ufficio politico, chi se ne occupa? «L'ufficio politico - risponde Forlani - può essere tranquillamente allargato». Una proposta che fa insorgere l'interessato: «Io il mio contributo lo darò da senatore, da semplice consigliere nazionale». Sì, Gava accetta di non dividere la de, ma difficilmente dimenticherà lo scherzo che gli hanno giocato, completato da quei tredici irriducibili che lo hanno votato lo stesso con la conseguenza che sui verbali del gruppo del Senato rimarrà scritto: Mancino batte Gava 75 voti a 13. «La verità - si è sfogato ieri in Trasatlantico il ministro doroteo Remo Gaspari - è che De Mita non riesce più neanche a controllare Mancino». Augusto Minzolini Gava si tira indietro: Mancino capogruppo al Senato, Gerardo Bianco alla Camera A fianco: Nicola Mancino A destra: Mino Martinazzoli

Luoghi citati: Avellino, Friuli, Mantova, Roma